Fin dalla sua privatizzazione nel 1995, il più grande stabilimento siderurgico italiano, l’Ilva, è stato trasformato in un uno “stato d’eccezione” normativo e disciplinare. È quanto emerge dalle inchieste della magistratura che nell’ultimo anno e mezzo hanno dissezionato il sistema-Riva. È quanto emerge, soprattutto, dall’ultimo ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Patrizia Todisco, relativa agli arresti dei massimi vertici del “governo ombra” dell’Ilva.
Da quanto si apprende, a governare davvero l’Ilva, in questi anni, non sarebbero stati i dirigenti che ricoprivano ufficialmente le più alte cariche aziendali, bensì i componenti di una struttura parallela, e segreta ai più, posta al di sopra di essi. Una piramide di “fiduciari”, a suo modo efficiente ed innervata nella vita di fabbrica, che aveva il compito di ottenere il massimo profitto, riducendo i costi di produzione, irregimentando gli operai, premiando i “quadri” obbedienti, bruciando materiali inquinanti nei forni, sversando liquami in mare, non ottemperando alle più elementari norme ambientali.
Questa sorta di “Gladio interna” non ha precedenti, almeno in tali forme, nella storia delle relazioni industriali di questo paese. E poiché non è stata formata solo negli ultimi anni, bensì si è costituita come asse portante del siderurgico in tutta la parabola della sua privatizzazione fino alla decisione del commissariamento, merita di essere seriamente analizzata.
L’inquinamento che ha appestato Taranto, si è detto più volte, è la manifestazione esterna delle rapporti di forza interni alla fabbrica: della gabbia disciplinare volta a premiare i “dipendenti modello” e a punire ed escludere i dissenzienti, dell’elevata erosione dell’appartenenza sindacale, dell’insicurezza quotidiana del lavoro operaio… Ora di questa gabbia disciplinare, volta alla militarizzazione di una grande fabbrica nel XXI secolo, sembrano emergere con maggiore chiarezza i lineamenti. Che all’Ilva ci fossero dei “fiduciari” lo si sapeva, o almeno lo avevano intuito in molti, tra le forze sindacali. Non era così evidente, però, la creazione di un vero e proprio sistema.
La struttura parallela dei “fiduciari” aveva tre livelli. Uno, di base, volto al controllo del lavoro più minuto, dei suoi tempi e della sua disciplina. Uno intermedio, di raccordo, e uno – l’ultimo – collocato al vertice, al di sopra dello stesso vertice della dirigenza di fabbrica.
Stando a quanto si legge nell’ordinanza, nomi sconosciuti alla città di Taranto e alla stragrande maggioranza dei dipendenti sarebbero stati – con il beneplacito dei Riva che hanno orchestrato il sistema – i reali viceré della fabbrica. Lanfranco Legnani, “direttore-ombra” dello stabilimento. Alfredo Ceriani, responsabile di tutta l’area a caldo, con il compito di massimizzare la produzione. Giovanni Raioli, gestore dell’area parchi minerari e dell’area degli impianti marittimi. Agostino Pastorino, responsabile dell’area ghisa. Enrico Bessone, responsabile della manutenzione.
I Riva non hanno mai voluto mettere in discussione la loro struttura-ombra, anzi l’hanno oleata per bene nel tempo, favorendo una totale torsione dei rapporti interni allo stabilimento. Governare una enorme fabbrica rilevata dallo Stato con una struttura occulta avrebbe permesso, almeno nelle intenzioni, di deresponsabilizzare il vero vertice dell’azienda (pagato con premi di produzione, esterni alla normale retribuzione), scaricando su altri – gli utili idioti – i comportamenti illeciti adottati, e soprattutto creando una gerarchia ancora più verticistica, proprio perché non codificata e dai confini incerti. Va da sé che una struttura occulta, così concepita, si sarebbe sottratta (e difatti si è sottratta) al confronto con chi sta dall’altra parte, siano essi gli operai, i sindacati o l’intera città.
Devastazione ambientale a parte, è la creazione stessa del “governo-ombra” a inquietare. È un caso isolato, prodotto dall’eccezione Ilva, o è il modello occulto verso cui il capitalismo post-novecentesco corre a perdifiato?
Viene alla mente il 1971, quando emerse una fitta rete di spionaggio interna alla Fiat. Tale rete, poi venne appurato, aveva prodotto in vent’anni oltre 300 mila “schede personali” sugli operai del gruppo. Anche quella struttura, scientificamente volta al controllo dei dipendenti, era occulta, e vedeva il coinvolgimento, oltre che dei vertici aziendali, dei servizi, di agenti di polizia e carabinieri… Nell’Ilva, per certi versi – pur non pervenendo a quelle forme di controllo – si è raggiunto uno stadio ancora peggiore, perché tale struttura ha programmato in toto la produzione dello stabilimento al fine di raggiungere il massimo profitto, spremendo gli impianti senza ammodernarli.
Così il buco nero dell’Ilva si rovescia ancora una volta nella frontiera estrema del capitalismo. Importando all’interno dell’Italia, e dell’Europa, regole “marziane”, forse già presenti in forme non dissimili nelle propaggini neocoloniali dei grandi gruppi industriali del Nord del mondo in Asia o in Africa.
Governare l’eccezione industrial-ambientale, facendosi a propria volta stato d’eccezione disciplinare: è questa la lezione del capitalismo ultramoderno dalle parti dell’Ilva. Al pari dell’inquinamento prodotto, delle malattie e dei tumori, la “Gladio interna” andrebbe studiata nei suoi più reconditi dettagli per essere meglio rovesciata. L’Ilva può sopravvivere, portando a termine la complicatissima partita della trasformazione degli impianti, solo espellendo da sé le scorie di tali modi e rapporti di lavoro, incistati per vent’anni nella pelle del drago.