Il palazzo di vetro ha ospitato ieri il primo incontro al vertice fra Cuba e Usa su suolo americano in oltre 60 anni. Nel suo precedente intervento Obama aveva espresso la speranza che il congresso avrebbe presto deciso di sollevare l’embargo cubano «che non ha più ragione di esistere» a fronte di concessioni distensive da parte dell’Avana.
La sua affermazione aveva provocato l’applauso in aula dei delegati che da anni si esprimono contro il bloqueo americano. Dal canto suo Castro non aveva facilitato il compito politico di Obama col suo parlamento con un intervento in cui ha soprattutto elencato le richieste del suo governo, fra cui riparazioni per I danni economici subiti dal popolo cubano e la restituzione del territorio illegalmente occupato dalla base navale di Guantanamo.
Nel faccia a faccia di eri Obama e Castro hanno intrattenuto colloqui presumibilmente più “tecnici”. È stata la quinta volta che i due si sono parlati dopo il meeting di aprile a Panama e le tre telefonate intercorse dall’annuncio del disgelo a dicembre (l’ultima alla vigilia della visita del papa). Una frequenza che costituisce ormai una relazione di fatto, sancita il mese scorso dalla riapertura delle ambasciate rimaste chiuse, come ha ricordato Obama, sin dall’anno della sua nascita – il 1961. Ai colloqui dovrebbero fare ora seguito i fatti: il primo la probabile astensione americana nel voto sul rinnovo dell’embargo cubano.
Gli analisti hanno fatto notare che la photo op di Obama e Castro è durata tre volte più a lungo di quella della vigilia del presidente Usa con Putin. La cronaca aveva in precedenza sottolineato la freddezza del brindisi fra i due al banchetto di lunedì. Ma dopo gli affondi reciproci dei discorsi ufficiali Putin e Obama si sono pur sempre parlati per un’ora e mezza in una saletta al piano del consiglio di sicurezza. Il primo faccia a faccia in oltre due anni è avvenuto sullo sfondo di un di una situazione siriana in rapida evoluzione dopo “l’escalation” russa degli ultimi giorni. Stando alle indiscrezioni l’incontro sarebbe stato «professionale» e avrebbe riguardato in parti uguali le crisi siriane e ucraine. Davanti all’assemblea plenaria i due contenziosi erano stati oggetto di attacchi reciproci. Specificamente sulla Siria Obama aveva premesso l’impossibilità di ruolo futuro per Assad alla luce delle «carneficine» attuate dal suo regime.
Gli aveva fatto sponda Hollande il cui intervento è coinciso con le sortite dei jet francesi nei cieli sopra Damasco. E proprio l’iniziativa francese aveva fornito validi argomenti a Putin che nella replica aveva duramente criticato l’unilateralismo degli interventi occidentali, extra legali, come ha sottolineato, in quanto intrapresi senza alcuna legittima sanzione dell’Onu. Mentre Obama ha addotto l’insostenibilità “morale” del regime di Damasco, Putin ha denunciato come «colossale errore» l’eliminazione di Assad invocandone invece il sostegno nel nome del pragmatismo geopolitico. Il suo argomento è stato sostenuto poco dopo da Hassan Rouhani, il leader iraniano che ha avvertito che la rimozione di Assad non farebbe che consegnare il paese nelle mani degli islamisti. Nel muro contro muro non sembrano comunque esserci realistiche propettive per una dipartita del regime alawita di Damasco. Né per un prossimo miglioramento delle condizioni che hanno provocato ad oggi oltre 250 mila morti e milioni di profughi.
L’unica indiscrezione trapelata dopo l’incontro a porte chiuse di lunedì rimane il pronunciamento sibillino di John Kerry riguardo a possibili «concessioni» americane alla Russia in cambio di pressioni applicate dal Cremlino al regime Assad per limitare i bombardamenti di zone civili in Siria. Intanto rimane un dato acquisito la presenza russa, ufficialmente a sostegno delle proprie istallazioni aeree di Latakia e quelle navali di Tartus, sulla costa vicino al confine libanese.
I colloqui con Obama avrebbero anche toccato linee guida per evitare spiacevoli “incidenti” fra le forze delle potenze rivali impegnate negli interventi incrociati sul suolo siriano.
Nell’assemblea di ieri intanto ha preso la parola anche Petro Poroshenko che in inglese ha perorato la causa del governo di Kiev denunciando l’aggressione russa al suo paese e la «brutale violazione» di diritto internazionale e della sovranità ucraina costituita dall’annessione della Crimea. Mentre la delegazione russa abbandonava l’aula, il leader ucraino ha specificamente denunciato i veti strumentali di Mosca in consiglio di sicurezza, fra cui quello contro le indagini sull’abbattimento del volo MH17 da parte di presunte milizie filorusse. La sua missione, dopo l’offensiva diplomatica di Putin sulla Siria, è stata di riportare l’attenzione sull’altro fronte aperto della «nuova guerra fredda». Il suo intervento è stata una premessa di scarso auspicio per i prossimi negoziati sul protocollo di Minsk che a breve a Parigi verranno nuovamente a confronto i due regimi per tentare di trovare un esile via alla pace.