Tra i maggiori storici e teorici dell’arte contemporanei, Jean-François Chevrier (1954) ha sviluppato negli ultimi tre decenni una originale riflessione sulla vicenda e sugli usi dell’immagine fotografica, vista come un campo in rapporto con la tradizione delle arti visive, con i media, la letteratura, la filosofia, in cui può realizzarsi un nuovo equilibrio tra dimensione speculativa e sfera sensibile. Dopo aver fondato nel 1982 la rivista «Photographies», Chevrier si è concentrato sulla ricostruzione di una genealogia dell’uso artistico della fotografia, studiando figure fondamentali del modernismo come Walker Evans e Raul Hausmann, e quindi dell’epoca contemporanea, a contatto con la produzione di artisti come Jeff Wall, della cui opera è uno degli interpreti più attenti, John Coplans, Marina Ballo Charmet, Patrick Faigenbaum. All’attività di studioso e saggista – peraltro ancora poco nota in Italia (i suoi libri più recenti sono L’Hallucination artistique, 2012, e Œuvre et activité, 2015) – Chevrier ha affiancato quella di curatore, organizzando esposizioni di ampia risonanza come Une autre objectivité (1988-89) e Walker Evans & Dan Graham (1992-94); in L’Action restreinte. L’art moderne selon Mallarmé (2004-’05) e Formes biographiques (2013-’15) ha proposto riletture di largo respiro su momenti chiave della cultura visiva e letteraria tra Otto e Novecento; è stato consulente principale di documenta X (1997) e ha ideato con gli architetti Herzog & de Meuron il nuovo allestimento del Musée d’Unterlinden a Colmar (2016).
Ho incontrato Jean-François Chevrier a Parigi, in occasione, al Jeu de Paume, della mostra Raoul Hausmann Un regard en mouvement, un’occasione per riscoprire la sua importante produzione fotografica realizzata tra anni venti e trenta dello scorso secolo.
Qual è il tuo bilancio della mostra di Hausmann al Jeu de Paume?
La scelta di mostrare solo le fotografie di Hausmann è criticabile, perché la sua opera è molto più diversificata e complessa. Al tempo stesso non è irragionevole, dal momento che tra tutti gli artisti d’avanguardia, e particolarmente tra quelli vicini al dada – che non avevano all’inizio nessun interesse per la fotografia e anzi la disprezzavano come tecnica meramente rappresentativa – Hausmann è l’unico a essersi dedicato seriamente alla fotografia.
La sua attività di artista-fotografo è in effetti limitata al periodo che va dal 1927 al 1936 circa, poco meno di un decennio.
La scoperta delle opere di quel periodo, alla fine degli anni settanta, è stata per me una vera rivelazione. Nel 1975 era uscito in Francia un libro di Michel Giroud dedicato a Hausmann intitolato Nous ne sommes pas des photographes, una frase («noi non siamo fotografi») ripresa da un testo del 1921 in cui Hausmann, il dadasophe, come si faceva chiamare, criticava la fotografia in quanto strumento di appropriazione estetica, vale a dire di una compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso. Si può essere artisti-fotografi solo lavorando contro la fotografia, producendo immagini che permettono di combattere l’atteggiamento compulsivo dell’appropriazione estetica. Agli occhi di Hausmann la fotografia è il sintomo di un handicap spirituale dell’essere umano, che lo spinge a sottomettere il mondo ai parametri meccanici indotti dall’obiettivo della macchina fotografica.
Eppure l’autore di questa critica radicale appena sei anni più tardi ha iniziato a dedicarsi alla fotografia…
Il perché lo si è capito solo nel 1986, in una mostra a Vienna che mi aveva molto colpito (Raoul Hausmann. Fotografien 1927-1933). Hausmann si è interessato seriamente alla fotografia perché era il solo modo per combattere le regole oppressive denunciate nel testo del 1921. In altre parole, ha praticato la fotografia per lottare contro i meccanismi psicologici dell’appropriazione estetica e per impadronirsi di una tecnica la cui pretesa oggettività produce in genere una falsificazione dell’esperienza percettiva e spirituale.
Qual è dunque a tuo avviso il contributo essenziale di Hausmann alla relazione tra fotografia e arte moderna?
Dimostrare che si poteva praticare la fotografia senza soccombere al suo cattivo uso, in modo serio dunque, utilizzandola allo stesso tempo come registrazione, descrizione e contemplazione. Hausmann voleva usare la fotografia per fare delle fotografie, in modo diretto. Per lui la contemplazione era una forma sublimata di erotismo che permetteva di riversare l’esperienza del corpo amato nell’ambiente, di far apparire metafore erotiche nella morfologia del paesaggio: le pieghe, le ondulazioni, i fremiti della natura. Questa valenza erotica dell’esperienza contemplativa fu per lui la via d’accesso al lirismo fotografico.
Insieme a Hausmann, un altro grande artista-fotografo di cui ti sei occupato è Walker Evans. Cosa hanno in comune queste due figure?
Nessuno dei due si poneva nella posizione del fotografo che pretende di essere un artista, ma entrambi si consideravano artisti che utilizzavano la fotografia. Non dimentichiamo tra l’altro che all’inizio Walker Evans voleva diventare scrittore, non «fotografo». All’epoca la fotografia era o illustrazione, reportage, o artigianato artistico. Hausmann ed Evans non hanno accettato questa alternativa. Hausmann non ha avuto una carriera di reporter, era incapace di piegarsi alla disciplina richiesta dalla professione, ed Evans ha fatto di tutto per evitarla: i conflitti che ha conosciuto nel corso della sua attività di fotografo per la Farm Security Administration ne sono la prova. Infine, entrambi sceglievano i loro soggetti. In questo aprirono una possibilità, tuttora importante, per quei reporter che scelgono cosa fotografare, come ad esempio Ahlam Shibli o Santu Mofokeng, o anche, prima ancora, Robert Doisneau, a proposito del quale si potrebbe parlare di «reportage a uso privato».
Sia Hausmann che Evans «usano la fotografia per fare delle fotografie», come dicevi?
Sì, ed è una formula che mi ha permesso tra l’altro di concepire la mostra Une autre objectivité, dove erano presenti Jeff Wall e John Coplans, come pure Robert Adams e altri. L’idea di partenza era semplice: negli anni settanta i fotografi erano contrapposti agli artisti che usavano la fotografia. Questa opposizione è durata a lungo, se pensi che quando ho curato Walker Evans & Dan Graham nel 1992 mi ci sono ancora scontrato: da un lato, mi si diceva, non si può accostare un artista concettuale a un maestro della storia della fotografia, e quest’ultima espressione era beninteso carica di una connotazione nettamente dispregiativa. Dall’altro, mi si ripeteva, non si può mettere un maestro così importante a fianco di un artista concettuale che fa immagini senza interesse. Ho fatto di tutto per superare questa separazione, cercando di mostrare che si poteva essere artisti, usare la fotografia e fare delle fotografie. La dimostrazione era evidente nel caso di due artisti a cui sono stato molto vicino come Coplans e Wall: facevano qualcosa di diverso dal fare fotografie? Allo stesso tempo, non erano dei fotografi, erano davvero artisti che usavano la fotografia. Dunque «artisti che usano la fotografia per fare delle fotografie» è veramente l’espressione-chiave. Se ci si aggiunge «contro i cattivi usi della fotografia» si ottiene la formula completa.Q

Questa idea permette di ripensare la vicenda dei rapporti tra arte e fotografia dagli anni venti del Novecento fino a oggi?
Va detto anzitutto che per me l’arte moderna è nata con la fotografia, come ho cercato di mostrare in un libro, Entre les beaux-arts et les médias. L’arte moderna si situa esattamente tra belle arti e media, ed è nata con la fotografia in questa precisa circostanza. Ciò vuol dire che occorre risalire all’indietro, ben prima degli anni venti, fino al XIX secolo, dove la vicenda inizia con degli artisti-fotografi che utilizzano lo strumento fotografico per descrivere una realtà fenomenologica e storica, come fa ad esempio un fotografo straordinario come Henri Le Secq, capace, in una fotografia scattata dopo il 1850, Au Champ des Cosaques, di rappresentare il luogo di una battaglia napoleonica, un luogo di memoria, mostrando da vicino solo un terreno pietroso, spaccato e rivoltato, in un modo che oltrepassa l’aneddoto storico e la commemorazione creando una relazione molto personale, in cui gli interessi psicologici non si lasciano ridurre a fini descrittivi.
Non è dunque, come si dice di solito, con la mostra di Walker Evans «American Photographs» nel 1938 al MoMa di New York, che si afferma definitivamente la figura dell’artista-fotografo?
A quel punto i giochi erano fatti da tempo. La mostra di Walker Evans a New York giunge alla fine di una lunga vicenda precedente, anche se naturalmente è importante perché avviene in un museo d’arte moderna di una grande metropoli. Ma il vero fatto importante è che American Photographs è accompagnata da un libro che è una straordinaria invenzione, un libro di immagini concepito sul modello della raccolta di poemi in prosa.
Un vero e proprio nuovo medium, che diventerà essenziale nella successiva vicenda della fotografia.
Sì, vicenda non chiusa peraltro, ma che per alcuni artisti non ha alcuna importanza, vedi il caso di Jeff Wall, che ha prodotto quaranta cataloghi ma mai un libro. Per lui, è il tableau fotografico a essere interessante, non il libro.
Per tornare a Hausmann, non c’è anche nella sua posizione una critica implicita a una concezione della fotografia come strumento, diremmo oggi, della spettacolarizzazione del mondo?
C’è una dimensione etica, anzitutto. Sono sempre stato contro l’appropriazione estetica, ho sempre pensato che occorre lasciare esistere le cose, le persone, cercando di non farle entrare in modo autoritario in categorie, in discorsi, in racconti. Ho sempre pensato che l’arte moderna sia un’arte costruttiva, non autoritaria, e ciò che mi interessa è appunto una costruzione non autoritaria, qualcosa che ho capito osservando l’opera di Sophie Taeuber. Ho un fondo anarchico che ho ritrovato in John Coplans e in molti artisti con cui ho condiviso delle idee: lasciare esistere il mondo, non forzare il discorso, non imporre un’interpretazione, non piegare le cose in senso spettacolare.
In questo senso le mostre, di fotografia o altro, non sono anch’esse dispositivi spettacolari?
Una mostra è certamente uno spettacolo ma al tempo stesso anche un antispettacolo. È un paradosso impossibile da sciogliere. Ma si deve cercare di produrre uno spettacolo antispettacolare, allo stesso modo in cui un artista-fotografo deve sforzarsi di produrre immagini non basate sull’appropriazione estetica. L’idea di costruzione non autoritaria è per me fondamentale, e dico bene non autoritaria, non «antiautoritaria». Bisogna sempre sottrarsi al principio di autorità.-