Quando, nel luglio del 1904, lo sculture rumeno Constantin Brancusi arrivava a Parigi, dopo un viaggio a piedi che sarebbe entrato nella leggenda, la scena artistica della ville lumière viveva da tempo una certa agitazione; per prender coscienza degli sviluppi delle nuove tendenze era necessario fare tappa proprio a Parigi. Henri Matisse, varcati i quarant’anni, proprio nel 1904 espone per la prima volta delle sculture al Salon d’Automne; e anche Picasso aveva iniziato a praticare la scultura in modo più deciso, dopo qualche prova nel 1902, stabilendosi definitivamente a Parigi nel 1904. Nel 1906 sarebbe arrivato anche Amedeo Modigliani e, sempre a Parigi, avrebbe esposto per la prima volta le sue sculture (nel 1912, al Salon d’Automne). Proprio in questo momento anche alcuni scultori che, per generazione, si erano formati nella vague simbolista della fine del secolo, giungevano a una potente revisione del loro linguaggio: basti pensare ad Aristide Maillol o ad Antoine Bourdelle.
Il grande convitato di pietra per chi in quegli anni sceglieva di dedicarsi alla scultura era senz’alcun dubbio Auguste Rodin. La consacrazione ufficiale era arrivata nel 1900, quando nel padiglione dell’Alma, in un’esposizione satellite tra quelle per l’Exposition Universelle, Rodin mostrò al pubblico una serie di opere che avrebbero catturato l’attenzione degli artisti e dei critici. Da quel momento si era innescato una sorta di conto alla rovescia che avrebbe portato a ridefinire quello che si considerava ‘scultura’: non si poteva più prescindere dalle ricerche di Rodin, non si poteva più ignorarle. Le sue scelte linguistiche avrebbero avuto un grande peso per gli artisti più giovani.
Brancusi e Matisse in «continuità»
Ma non si deve pensare a una questione di ‘influenza’. In molti casi l’esempio di Rodin ha funzionato come pietra di paragone in negativo, per spingere cioè gli artisti a cercare vie alternative, per muoverli a eludere quello che molti di loro consideravano ormai un ingombro e un fare scultura che andava superato. Brancusi stesso, nel realizzare un’opera come La Preghiera (1907), pur appoggiandosi – inevitabilmente, verrebbe da pensare – alle scelte espressive di Rodin, realizza qualcosa di differente, un’opera che lascia trasparire il suo essere stata concepita sin dall’inizio mutila dei dettagli superflui. O, analogamente, il caso di Matisse, che con Il Servo pare portare all’esasperazione certe soluzioni adottate da Rodin.
Sono, questi, alcuni degli episodi che definiscono quella stagione in cui «tutto era possibile»: questo è infatti il sottotitolo del bel libro di Catherine Chevillot, direttrice del Musée Rodin di Parigi, La Sculpture à Paris, 1905-1914 Le moment des tous les possibles (Hazan, 49 illustrazioni, pp. 344, euro 29,00). È una dimensione quasi caleidoscopica quella che emerge dalle pagine della studiosa, fatta di incontri, scontri, meditazioni su temi e soggetti comuni, segnata dalla riflessione attorno a problemi che in quegli anni accomunavano gli artisti, in particolare gli scultori. L’indagine delle tensioni e delle zone di rottura, ma anche dei punti di convergenza tra linguaggi artistici a tutta prima assai lontani, costituiscono uno dei punti di forza del lavoro di Chevillot. Un lavoro, va detto, che la studiosa porta avanti ormai da quasi un decennio, almeno sin dalla mostra del 2009 (Oublier Rodin?, organizzata a Parigi e Madrid), dove alcuni dei temi-chiave per comprendere che cosa accadde alla scultura nei primi decenni del Novecento erano già affrontati di petto. Il volume costituisce l’approdo a una dimensione più ampia, che ritesse i temi e i passaggi in un quadro più organico.
Come precisa la stessa autrice, la scultura dell’inizio del Novecento ha sofferto a lungo di una difficile messa a fuoco storiografica, per cui si finiva sempre per annettere quel momento o al secolo precedente, facendo di fatto di quegli artisti gli epigoni del simbolismo, oppure di intravedervi le avvisaglie delle successive avanguardie. In entrambi i casi, comunque, non emergeva una fisionomia chiara e autonoma di artisti come Maillol, Bourdelle o Wilhelm Lehmbruck. C’è voluto del tempo per ricollocare nella giusta prospettiva le esperienze maturate attorno al 1905, anno- chiave per le vicende indagate da Chevillot – è l’anno, per esempio, della prima esposizione del gesso della Mediterranée di Maillol, opera che già i contemporanei percepirono come un ‘manifesto’ del nuovo corso della scultura del Novecento.
Se per comprendere le novità messe in campo da Rodin si sono dovute aspettare le ricerche di studiosi come Albert E. Elsen o Kirk Varnedoe negli ultimi decenni del Novecento, la messa a fuoco del rapporto problematico che gli scultori più giovani intrattenevano con le sue opere ha necessitato di ulteriori sforzi critici. Come specifica l’autrice, è richiamando il concetto di ‘influenza’ così come è stato definito da Michael Baxandall che è possibile ‘situare’ Rodin: la sua percezione da parte dei contemporanei non coincide affatto con la produzione della sua tarda attività. È lo «sguardo a proposito di» che conta in questo caso.
Il problema della plastica cubista
Ma se certo questo del rapporto con Rodin è uno dei nuclei forti del volume di Chevillot, bisogna rilevare come il volume vada anche molto oltre. Per esempio, un intero capitolo affronta il complicato problema del rapporto tra scultura e pittura, offrendo una lucida analisi non solo delle differenti posizioni che si fronteggiavano, e della ricezione da parte dei critici, ma anche delle diverse soluzioni adottate dagli scultori per differenziare il loro linguaggio da quello dei pittori. L’analisi della studiosa rende conto, ad esempio, del complesso e dibattuto problema della ‘scultura cubista’, su quale fosse la considerazione da accordarle e in che modo affrontarla. Un intero capitolo affronta nel dettaglio il problema del Primitivismo nelle sue diverse declinazioni: un ‘primitivo’ che è sinonimo di arcaico – e quindi le diverse ispirazioni derivanti dall’arte egizia, o dalla tradizione del Gotico; ma anche un ‘primitivo’ che è declinazione di un’aspirazione verso le origini – e dunque l’arte africana e dell’Oceania, caratterizzate dai volumi sintetici e dalle forme abbozzate.
Seguendo i percorsi che Chevillot disegna attraverso le complesse tendenze di inizio Novecento, risulta alla fine una mappa che permette di fissare dei punti fermi, e quindi di orientarsi. È una mappa corale quella che ci si trova davanti, perché, magari a scapito di una messa a fuoco puntuale dei singoli artisti, l’attenzione punta sulle relazioni, sugli incontri, su una dimensione che privilegia i momenti di scambio e di reciproca interazione. Se anche gli ultimi due capitoli, incentrati sulle idee filosofico-estetiche coeve al lavoro degli artisti, in alcuni punti sembrano offrire un’analisi meno stretta e convincente rispetto al resto del volume, nondimeno si potranno ricavare alcune direttrici interessanti per comprendere quegli anni così ricchi di cambiamento.
In fondo, alla fine, sembra di voler girare attorno alla stessa domanda: ma cosa vuol dire ‘essere moderni’? E come si fa la modernità? Qualcuna delle risposte date a queste domande da parte di alcuni dei più importanti artisti e critici del Novecento si possono trovare proprio in questo libro. La Prima guerra avrebbe imposto una radicale ridefinizione dei valori, anche di quelli artistici. Ma la svolta verso la modernità era, ormai, definitivamente compiuta.