E’ triste destino degli artisti che la storia incapsula nella categoria dei “maledetti” di dover far i conti in ogni momento della loro esistenza, e quando poi saranno ricordati, con il proprio “maledettismo”. A Chesney detto “Chet” Baker, faccia d’angelo ridotta a una ragnatela di rughe dalle droghe ben prima che i suoi tratti alla James Dean lo meritassero per mera anagrafe tale sorte è toccata e tocca continuamente. Anche ora che sono passati tre decenni dalla sua morte, una scomparsa molto teatrale e jazzistica, quasi da luogo comune del maledettismo, con un volo giù da una finestra d’albergo. E’ un Chet molto maledetto e per i quattro quinti dello spettacolo in equilibrio precario e ciondolante tra le splendide scenografie da locale jazz degli anni ’50 (di Andrea Belli) quello concepito da Leo Muscato e Laura Pertini. Il tutto in Tempo di Chet / La versione di Chet Baker, andato in scena al Teatro Modena di Genova per il Teatro Nazionale di Genova.

SUL PALCO Alessandro Averon a impersonare il trombettista dalla voce esile e fascinosa, in posizione sopraelevata il superbo trio di Paolo Fresu con Dino Rubino e Marco Bardoscia, a eseguire in tempo reale le musiche di Chet: gioco facile, verrebbe subito da dire, per la presenza del trombettista sardo ambasciatore del nostro jazz nel mondo, che a Chet è legato da un filo di poetica intenso e diretto, e da un rispetto che prescinde da ogni fascinazione per gli aspetti torbidi. Non è così facile, invece, il gioco d’interazione con gli otto attori sul palco rispettando al contempo l’umbratile e disperata musica di Chet, magari introducendo tra le spire delle note anche qualche effetto elettronico, qualche nota affogata nei riverberi, contestualizzando la storia di Chet in un tempo che è al contempo quello della nostra modernità sofferta e quello di una metafisica. La metafisica dell’assenza di Chet, assente anche quando c’era. Come musicista, come padre, come amante, come creatura affamata di una vita che gli sfuggiva tra le dita eleganti strette a premere sui pistoni, o a fissare un laccio emostatico per iniettarsi una dose.

L’IDEA DRAMMATURGICA di Muscato è stata di procedere per affioramenti di fatti, eventi, persone che sono state importanti, a volte decisive nella storia tormentata della vita di Chet: dunque di volta in volta si presentano e si affacciano in scena i personaggi, dai genitori di Chet alle sue molte donne, dai manager discografici ai protagonisti del cool jazz che con Chet divisero i palchi e i dischi. C’è anche un personaggio ombra e fantasma a dialogare con intermittenza con Chet, quello di Charles “Bird” Parker, numen sovraccarico di vita e di significati. Chet in California con Gerry Mulligan, Chet a Parigi, dove perde l’amico geniale Dick Twardzik  pianista, per overdose , Chet in Italia, sotto processo. Un’epopea tragica e ben resa, forse sol o un po’ sovraccarica, nei tempi scenici. Ma perché, per tutto lo spettacolo, quella pronuncia enfatica e sbagliata della parola “jazz” con la “a” aperta, intollerabile vezzo italiano?