Nell’era di MasterChef, il talent show tv, e dei master chef, i veri o presunti super cuochi, nessuno è più al sicuro. Paste al pomodoro e uova strapazzate di una volta rischiano di trasformarsi in piatti alieni dalle note dolci o aspre, intrugli (in)capaci di fornire – come specificano gli enologi – percezioni varietali ampie e lunghi finali aromatici. Insomma niente sapori e odori di un tempo ma lunghe variazioni su temi che spesso disvelano solo misere insipienze. Nell’era di MasterChef tutti sono diventati cuochi Michelin e pochi, pochissimi sono mai stati davvero in cucina. Un dato, però, è inequivocabile. Come sottolineava tempo fa il Washington Post : i patiti di cibo aumentano e contemporaneamente si assiste a un declino dell’industria discografica. Le due cose sono correlate? Succede forse che con l’età cambiano le priorità e il cibo si trasforma nel principale argomento di discussione soppiantando i rossori dell’amore e il brivido dei flirt? O c’è effettivamente dell’altro? In tal senso due recenti festival Usa aiutano a capire: lo Sweetlife nel Maryland e il Great GoogaMooga a Brooklyn, New York. Al primo, lanciato come «food & music festival», hanno partecipato, tra gli altri, Phoenix, Kendrick Lamarr, Yeah Yeah Yeahs e una sfilza di produttori enogastronomici. L’evento è organizzato annualmente da Sweetgreen, catena di Washington Dc fondata nel 2007 specializzata in insalate bio, selezionate da produttori certificati con lo scopo di «supportare le nostre comunità e creare relazioni sociali sensate con le persone che ci vivono intorno».

Il secondo festival specificava che Great MoogaMooga è un «parco divertimenti di food, drink & music». In breve: qui si mangia e poi si suona. Sul palco sono saliti, oltre ai soliti Yeah Yeah Yeahs, anche Flaming Lips, Darkness, Kool & The Gang, De La Soul, Matt & Kim, il nostro Jovanotti ecc. Come si vede non è più tanto la musica a tirarsi dietro le lusinghe dello stomaco ma quasi il contrario. Il fatto è che le esperienze enogastronomiche riescono sempre più a dare quel brivido che un tempo dava il rock’n’roll. Soddisfano il nostro senso e bisogno di scoperta; riflettono le nostre identità, la nostra visione politica; noi siamo culturalmente sempre più quello che mangiamo. E soprattutto, a differenza della musica, il cibo continua a garantire quel piacere sensuale che non può essere trasmesso per via digitale. Detto in altro modo: la musica si scarica, un tiramisù lo assaggi, lo guardi, non si materializzerà mai dallo schermo di un computer. E questa è una differenza enorme. Come ribadisce lo stesso Chris Richards del Post , l’accesso digitale ai suoni, su base globale e orizzontale, ha poi progressivamente tolto fascino alla musica, le ha conferito certezze e l’ha trasformata in un oggetto dato per acquisito. Tanto che anche la band più marginale ha ormai la sua finestra e esposizione su piattaforme come Soundcloud. Il cibo no, quello te lo devi andare a scovare, e più la ricerca del particolare è difficile più ci si sente gratificati. Più un ristorante o un negozio è fuori dalle guide e invisibile, più cresce l’empatia con quel ristoratore e il proprio senso della scoperta. Del resto la cucina è l’ultima forma di regionalizzazione rimasta in un’era in cui la rete ha vaporizzato il particolare. Di contro va detto che rispetto all’idea di musica perenne e per tutti, il cibo – per chi ha disponibilità economica – è diventato anche l’ultima frontiera della esclusività, creando status e differenze sociali. Inoltre consente forme di controllo e potere da non sottovalutare; nelle zone più marginalizzate e degradate delle città raramente compaiono negozi che offrono valide alternative ai cibi più infimi; piuttosto abbondano i fast food più scadenti e le catene di supermercati a basso costo. Un sano discorso sul cibo va, dunque, preso per il giusto verso, altrimenti finisce per mangiar bene solo chi può permetterselo. Ciò detto, è importante rilevare come l’investimento emotivo ed economico su un determinato ristorante o prodotto (rispetto alle collezioni musicali, ai pezzi unici, ai packaging discografici più esoterici ecc.) cresce. Non è un caso che proprio negli Stati Uniti, patria del cibo veloce e ipercalorico, sempre più ragazzi tendono a spendere una parte dei loro stipendi – di certo non alti – in esperienze enogastronomiche. Una recente indagine ha rivelato che dal 2000 al 2011 i consumatori con meno di 25 anni hanno speso il 26 per certo in più del loro stipendio in nuovi cibi o ristoranti. Nello stesso periodo di tempo quelli tra i 25 e i 34 hanno speso il 20 cento in più. Tornando alla musica, prima che il download si affermasse a livello di massa si vendevano ogni anno oltre 785 milioni di dischi – i dati Nielsen SoundScan si riferiscono al 2000. Dodici anni dopo il numero è sceso a 316 milioni di pezzi; difficile collegare direttamente le due aree in questione, cibo e musica, ma sicuramente la cucina sta sottraendo al rock quello che un tempo era il suo ambito di influenza: ossia contribuire ad edificare un’identità personale. Il fatto, poi, di essere bombardati da programmi tv di cucina, dolci e dintorni spiega bene lo spirito di un tempo in cui il cibo rappresenta (almeno nei paesi più affluenti) una certezza da contrapporre a instabilità politica e tensioni sociali; il cibo ha, inoltre, smesso (sempre nelle aree più ricche) di essere mero sostentamento, è diventato un punto di vista, si è politicizzato (mangiare solo certe cose, ad esempio) rispetto a musiche sempre più distanti dalla politica. Inoltre i gruppi sociali che un tempo ruotavano intorno alla musica (dark, punk, emo ecc.) oggi si imperniano sul cibo, con vegani, senza glutine, onnivori ecc. che fanno gruppo a sé caratterizzati da appositi punti di ritrovo e ristoro. Gli chef sono diventati le nuove rockstar, anche iconograficamente (tatuaggi, mise ad effetto); dietro quei grembiuli officiano riti che vanno oltre la semplice idea di cucina; sono su un palco e chi siede al tavolo pende da quelle forchette. In un’intervista al Washington Post , lo scrittore enogastronico Zach Brooks rivelava come un suo podcast si fosse efficacemente chiamato «Food Is the New Rock», il cibo è il nuovo rock. Tra i suoi ospiti anche Jonathan Gold, ex critico musicale del Los Angeles Times e oggi apprezzato giornalista gastronomico. Non a caso molti – tra musicisti e critici à- sono passati dalla musica al cibo. L’esodo è lento ma inesorabile. E mentre da tempo le star (da Mick Hucknall a Sting, da Madonna a Santana e Dylan) si dilettano nella produzione di vini e birre o prestano il proprio nome a note cantine e case vitivinicole, altri colleghi fanno passi decisi. Con i Kiss che aprono 100 ristoranti negli Usa, Eric Hilton (Thievery Corporation) che ne ha aperti cinque a Washington e Brian Weitz (Animal Collective) che ha investito in una catena di cibo taiwanese. Come si vede la linea di divisione tra cibo e musica continua lentamente a dissolversi (Alex Kapranos, anche cuoco, dei Franz Ferdinand insegna) e riguarda artisti tanto diversi tra loro. E viene in mente la storia di Stephen Starr, ristoratore Usa noto per aver aperto a fine anni Settanta lo Stars, cabaret di Filadelfia in cui suonarono anche i Ramones. La sera del concerto antipasti e dintorni volavano nel locale, un po’ sullo stile dei food fight (battaglie col cibo) istituzionalizzati anni fa dai Beastie Boys. Chi scrive fu al centro di una battaglia di spaghetti e tramezzini scatenata dai tre al festival di Montreux nell’87. Un incubo. E poi le mani. Altra frontiera che il rock (e non solo) – attraverso le tecnologie più variegate – va lentamente rimuovendo. Perché come sostiene Jonathan Gold: «Non importa quanto sia attraente, non importa quanto ti faccia pagare, uno chef usa ancora le mani. In anni in cui gli assoli di chitarra sono sempre più fuori moda qualcuno deve pur fare qualcosa di fisico».