C’è chi prosegue un’attività avviata più di mezzo secolo fa dal nonno, come lo stagionatore Matteo Villa in Valchiusella, e chi invece ha cominciato dal nulla, per vocazione e per senso di responsabilità nei confronti della comunità montana, come le gemelle Greta e Natascia Facciotti, classe 1995. C’è chi i formaggi li produce – come Anna Maria Trombetta che a Paroldo, nella Langa cebana nel cuneese, propone tome di pecora, robiole, giuncata, ricotta, pecorino e anche lo yogurt – e chi invece il latte non lo lavora, come Eros Buratti di Verbania, che i formaggi li fa stagionare. C’è chi da anni lotta contro lo spopolamento delle cosiddette aree marginali e con caparbietà investe per assicurare un tessuto economico nelle borgate delle Alpi piemontesi, e chi invece da tempo lotta per veder riconosciuto il valore dei formaggi a latte crudo, stretti in una morsa che spesso privilegia quelli ottenuti da latte pastorizzato. Sono alcuni dei tanti volti del mondo lattiero caseario che si ritroveranno a Cheese, in programma a Bra (Cuneo) dal 17 al 20 settembre, per ribadire con forza che il formaggio non è tutto uguale e che le differenze non sono soltanto una questione di gusto, ma il riflesso di scelte e metodi di lavorazione che hanno il proprio fondamento nella volontà di proteggere la biodiversità e assicurare il benessere animale.

«Il bello di una materia prima come il latte è che non ci sono limiti alla creatività» dice Silvia Pennati, che insieme alla sorella Lara gestisce la Formazza Agricola, una cooperativa fondata nel 1989 a Formazza, il comune più settentrionale del Piemonte nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola. La cooperativa nacque in seguito all’alluvione di due anni prima: «Se non si fosse intervenuti, l’area sarebbe stata destinata ad andare incontro a un rapido abbandono, con la conseguente perdita di cultura e tradizioni a essa associata» aggiunge Lara. A distanza di anni, l’impegno delle due sorelle continua ad andare nella direzione della difesa del territorio: «In estate diamo da mangiare solo erba fresca appena sfalciata, di cui le nostre vacche vanno ghiotte, e anche il fieno per i restanti mesi dell’anno lo produciamo noi» rivendicano con orgoglio. Produrre formaggio, insomma, non significa soltanto portare in tavola profumi e sapori dell’alpeggio, ma anche contribuire a mantenere i pendii della montagna puliti, abitabili: «Se l’agricoltura se ne va dalla montagna, quest’ultima muore. In un’estate terribile come questa, caratterizzata dal maltempo, tutta la fatica e la perseveranza sono in nome della cura dell’ambiente».

POCO PIÙ A SUD, sulle sponde del lago Maggiore, vive Eros Buratti: lui le tome le prende in alpeggio, soprattutto nelle valli ossolane, e le affina, cioè le prepara per il debutto in tavola, nella sua cantina di Verbania. «La sensazione che provo quando vado in alpeggio dai nostri produttori, quando taglio una forma di formaggio e ne sento il profumo, per me è una forma di libertà: la mia mente vaga, fantastica, e penso a che cosa potrà essere di quella toma uno o due anni più tardi – rivela – Vendere immediatamente un formaggio d’alpeggio è come dargli una coltellata. Il formaggio ha bisogno di riposo, di entrare nelle nostre cantine, di prendere il profumo delle assi di legno, prima di essere venduto». Eros sarà in buona compagnia, perché a Cheese saranno presenti affinatori di tutta Europa: dal Belgio, ad esempio, arriva Frederic Van Tricht di Kaasaffineurs Van Tricht, un negozio di formaggio a conduzione familiare ad Anversa, con relativa cantina per la stagionatura, che il Wall Street Journal nel 2010 ha votato come miglior negozio di formaggi del Vecchio Continente: «I nostri primi esperimenti sulla stagionatura dei formaggi risalgono alla fine degli anni Ottanta – rivela Frederic – Oggi invece abbiamo otto diverse cantine di invecchiamento a otto diverse temperature e livelli di umidità. Questo significa che possiamo fornire le migliori condizioni possibili per i diversi tipi di formaggio e sviluppare appieno il potenziale di ognuno».

DUE GEMELLE, VENTI VACCHE e settanta capre: da tre anni, le estati di Greta e Natascia Facciotti sono così. La loro azienda agricola è nata nel 2013 quando, appena maggiorenni, le ragazze cominciarono ad allevare la metà dei capi che gestiscono oggi. Basate a Oro, frazione di Boccioleto (provincia di Vercelli), all’inizio della bella stagione salgono in alpeggio con un cammino lungo più di sei ore: una fatica ripagata dalla qualità dei loro prodotti, un’esperienza acquisita anno dopo anno non senza sacrifici: «La Val Sermenza stava morendo, non c’era più niente. Dovevamo fare qualcosa. Abbiamo iniziato da zero, dapprima ristrutturando alcuni edifici ora adibiti a stalla per le capre, poi costruendone uno per le vacche. Abbiamo accettato tutto il bello e il brutto di questa scelta, spesso sbagliando». L’approccio, in altre parole, è fondamentale: il loro si fonda sulla consapevolezza di voler lavorare soltanto il latte crudo, cioè quello che non ha subito trattamenti termici come la pastorizzazione. «Fare formaggio a latte crudo significa lavorare una materia viva che dipende da molte condizioni che non è possibile controllare» spiegano le gemelle Facciotti. Un esempio? Se le vacche cambiano pascolo, è probabile che per alcuni giorni la quantità del latte diminuisca e che il formaggio che ne risulterà non sia perfetto, perché le bestie hanno bisogno di tempo per adattarsi al nuovo pascolo. Ed è giusto così».

DAL 2017, IL MERCATO DI CHEESE accoglie soltanto formaggi a latte crudo, e le ragioni sono chiare: questo tipo di latte mantiene le sue caratteristiche di partenza, nutrienti, vitamine, enzimi e fermenti lattici. È la “fotografia” del territorio dove viene prodotto: il latte crudo, infatti, trasferisce ai formaggi gli aromi e i profumi delle erbe e dei fiori mangiati dagli animali al pascolo, dà valore al lavoro dei pastori, alla manualità dei casari. Nel caso dei formaggi ottenuti da latte pastorizzato avviene tutto il contrario: per fare formaggio con questo tipo di latte occorre aggiungere fermenti, nella stragrande maggioranza dei casi industriali, affinché si inneschi la fermentazione che dà vita ai caci.
A Cheese, a latte crudo sono naturalmente i formaggi, ma anche il burro: quello dell’Alto Elvo, ad esempio, il Presidio Slow Food protagonista del Laboratorio del Gusto tenuto da Marta Foglio, cuoca del ristorante Foodopia a Pollone nel biellese. «Ho cominciato insegnando educazione alimentare, ma presto mi sono resa conto che era necessario aiutare le persone a mettere in pratica i consigli di buona alimentazione che davo. Così ho deciso di formarmi a livello culinario: è stato il modo per trasmettere al meglio ciò che insegno» racconta Marta. Prima un corso di naturopatia con specializzazione in educazione alimentare, poi l’incontro con Franco Berrino e l’avvicinamento al tema dell’alimentazione e della prevenzione oncologica. Esperienze che l’hanno portata verso una cucina vegetariana nella quale trova spazio il burro, un alimento a lungo visto di cattivo occhio per la salute. «Quando scegliamo un burro o un formaggio dovremmo cercare di capire con che latte sia stato prodotto, perché il latte di una pezzata rossa di Oropa in alpeggio o di una frisona rinchiusa in stalla sono estremamente diversi. I formaggi di alpeggio non solo non fanno male, ma contengono anche princìpi benefici per la nostra salute».

NELLA QUATTRO GIORNI DI BRA ci sarà anche Anna Maria Trombetta con i formaggi delle sue 90 pecore. A Paroldo, nel cuneese, gestisce Fattoria Bronzetta, un laboratorio di allevamento (di pecore ma anche di api) e di agricoltura biodinamica: un sistema in cui «la natura si dona all’animale e l’animale dona energia al pascolo» spiega lei. Sempre dalla provincia di Cuneo arrivano le capre che Gian Vittorio Porasso, pastore e casaro di Castelnuovo di Ceva, porta in alpeggio a Paraloup, borgata nel comune di Rittana: «Qui ho trovato sia prati-pascoli stabili sia piante di invasione come rovo, rosa canina, biancospino, frassino, lampone, betulla e faggio, ideali per la dieta delle mie capre». Le robiole da consumare fresche e le tume reimpastate, più adatte alla stagionatura, sono il segno tangibile – e gustoso – di un lavoro di recupero e valorizzazione di una borgata di montagna divenuta un centro culturale vivo. Non l’idea di montagna come rifugio dallo stress della vita quotidiana, ma di un territorio da vivere ogni giorno dell’anno, in cui investire e credere, e da cui ricevere in cambio ciò che l’urbanizzazione dell’ultima metà di secolo ci ha forse fatto scordare: la consapevolezza, cioè, che l’economia montana, l’agricoltura, l’allevamento e la filiera lattiero casearie sono una risorsa reale.