A 35 anni da quel lontano 1982 che intaccò seppur solo per un istante il mito di Montserrat Caballé e incoronò Cecilia Gasdia nuova star dell’opera nella ripresa di un allestimento grandioso ideato da Luchino Visconti nel 1957 per Maria Callas, torna al Teatro alla Scala Anna Bolena di Gaetano Donizetti. I passaggi alla Scala di quest’opera, che debuttò con grande successo nel 1830 sulle scene del rivale Teatro Carcano, fanno sempre clamore: nel 1982 la Caballé, fischiatissima dal pubblico, fu costretta dal teatro a ritirarsi, oggi Bruno Campanella e Anna Netrebko, che avrebbero dovuto cimentarsi con la direzione e col ruolo della protagonista, hanno dato forfait, lasciando l’improbo compito di portare a termine l’impresa al direttore rumeno Ion Marin e al soprano russo Hibla Gerzmava.

Il risultato complessivo è deludente, ma le responsabilità vanno distribuite proporzionatamente. Marin, che pure con Donizetti si è cimentato altre volte, sembra essere precipitato dentro questa «tragedia lirica» per caso e dirige in maniera fiacca e slabbrata, senza staccare mai tempi drammaticamente efficaci, senza prestare mai l’orecchio alla tornitura di suoni che vadano oltre il zumpapà bandistico pur presente in abbondanza nella scrittura donizettiana: l’opera ne esce impoverita, sia nella musica che nelle sue pulsioni genuinamente tragiche.

La Gerzmava, dal canto suo, risolve il ruolo decorosamente in ogni sua parte, sia quelle di forza che quelle liriche, dando prova di una buona tecnica e di una buona resistenza; peccato solo che il timbro della sua voce, sonoro e pieno nel registro centrale e in quello grave, salendo in acuto si sbianchi e diventi stridulo, facendo rimpiangere i pianissimi gentili e ombrosi della Caballé e di Katia Ricciarelli dei tempi d’oro: ne deve essere consapevole la cantante, che si mostra impacciata proprio nell’aria finale che quei suoni richiede di più.

Sonia Ganassi, che canta Seymour da decenni, compensa dignitosamente con la tecnica le mancanze di una voce a tratti impoverita e poco voluminosa. A Carlo Colombara, che fa scempio del pur familiare ruolo di Enrico VIII, si vorrebbe chiedere come mai non abbia rinunciato: gli acuti schiacciati, i suoni calanti, i fuori tempo, le stonature, il continuo e inopportuno ripiegare nel parlato hanno minato pezzi d’insieme e momenti cruciali dell’opera. Piero Pretti canta Percy pensando soprattutto a portare a casa gli acuti: fuori fuoco il resto del ruolo, e di conseguenza l’intero personaggio.

Fuori ruolo Martina Belli (Smeton). Dulcis in fundo, l’allestimento dell’opera, che ha debuttato nel 2014 a Bordeaux, con la regia di Marie-Louise Bischofberger, allieva e vedova di Luc Bondy, le scene di Erich Wonder, i costumi di Kaspar Glarner e le luci di Bertrand Couderc: clamorosa, e fischiatissima dal pubblico, la vacuità di idee che si tenta di colmare con movimenti (le piroette che Enrico fa fare a tutte le donne che incrocia) e citazioni (gli uccelli di Hitchcock!?) senza senso.