Si chiamano Che Sudaka i globetrotter della musica ribelle. La band con sede a Barcellona è immersa in un moto perpetuo che va oltre lo stesso concetto di tournée. Con il titolo dell’ultimo disco in studio, 10, gli ex busker approdati in Europa dall’America Latina hanno festeggiato nel 2012 altrettanti anni di attività ufficiale, mentre con il fresco di stampa 1111 Lives immortalano il mostruoso score dei concerti tenuti in carriera. Abbiamo incontrato i due fondatori, Leo e Kachafaz, al Babel Med di Marsiglia.

È vero che arrivaste in Europa come clandestini?

Leo: «Sì, noi due arrivavamo da Mar De Plata, in Argentina. Laggiù eravamo sostanzialmente dei musicisti di strada, una condizione che in America Latina è penalizzante. Se dici che fai il busker ti dicono, ok, ho capito, suoni per strada: ma ti ho chiesto che lavoro fai? Anche se avevi un gruppo cambiava poco, è proprio la musica che fa fatica a farsi capire come professione. Invece a Barcellona se ti qualifichi come musicista di strada hai dignità di lavoratore. Così siamo partiti in cerca di fortuna.

Quindi la band è nata a Barcellona?

Kachafaz: «Sì, lì dopo un anno come duo di strada al Barrio Gotico abbiamo trovato i compagni di strada giusti per mettere in piedi un vero gruppo.

E la terra promessa delle Ramblas si è confermata tale?

Leo: «Nei primi tempi sì, non ci sembrava vero di poter suonare liberamente ovunque, di radunare tutta quella gente per strada con le nostre canzoni. Adesso è diverso, le norme di legge sono cambiate, c’è stato un giro di vite e suonare per strada, a Barcellona come nelle altre città spagnole, richiede certificazioni burocratiche e costi tali che molti lasciano perdere. Altri rischiano le sanzioni di polizia: una chitarra per strada a Barcellona oggi è considerata pericolosa come un mitra».

Come vivete la spinta indipendentista che cresce in Catalogna?

Leo: «Ci è del tutto estranea, e non potrebbe essere altrimenti. Siamo arrivati a Barcellona da clandestini proprio perché non crediamo nelle frontiere, per cui l’idea che anziché abolirne se ne aggiungano non ci appartiene. Per noi la libertà non si decide sulle cartine geografiche, è una questione che riguarda i singoli individui. L’indipendenza è un’esigenza di ciascuno di noi, sia clandestino, catalano o di qualunque parte del mondo».

 

C’è differenza emotiva tra suonare per strada e farlo sui palchi?

Kachafaz: «Per strada suoni e si ferma chi vuole, chi è interessato, chi passa di lì per caso e ha cinque minuti liberi. In un club o a un festival la gente paga il biglietto, sceglie di venire a vederti. Dunque, per strada fai quello che vuoi, provi, sperimenti, vedi come reagisce la gente, mentre uno show ufficiale deve garantire uno standard. Devi avere un team, persone qualificate che lavorano per te».

Questa differenza influenza anche il processo creativo di composizione delle canzoni?

Leo: «No, guai. Quando scrivi un pezzo devi fare quello che hai nella testa e nel cuore, affrontare gli argomenti che senti forti in quel momento, essere te stesso. L’audience può essere una persona da sola al bar come cinquantamila ragazzi a un grande festival all’aperto: non è un problema che si pone al momento di comporre. Saranno le persone e le situazioni ad assorbire un aspetto oppure l’altro della canzone che nasce».

Suonate in tutto il mondo: quali sono le piazze più calde e le vostre ultime conquiste?

Kachafaz: «C’è qualcosa di comune e al tempo stesso di diverso ovunque.Poi ci sono incontri magici. Un ricordo tra i più forti è legato al calore del pubblico giapponese, lì ballano tutti, non sta fermo nessuno. Un altro pubblico che ci ha favorevolmente impressionati è quello ungherese. Anche in Bretagna impazziscono».

È corretto definire Che Sudaka un gruppo politicizzato che suona «patchanka»? e cosa significa patchanka nel 2014?

Leo: «Non ci piace il termine politico, indica cliché come la destra, la sinistra e il centro. Noi siamo una band sociale, che sta dentro la società e vuole contribuire a migliorarla. Per quanto concerne la patchanka, credo che sia una definizione abusata. Oggi come oggi è il nome di un ottimo gruppo danese, in passato è stata la definizione che la Mano Negra diede della sua stessa musica. Così come i Gogol Bordello scelsero per sé stessi il marcio «immigrant punk». Noi facciamo la musica che ci piace, prelevando elementi dalla cumbia, dallo ska e dal punk».

Nelle vostre citazione musicali parlate anche del quartetto: cos’è?

Leo: «È la musica tradizionale argentina della provincia di Cordoba, nel centro del paese. Ha qualche elemento comune con il merengue, fa ballare molto. Nel nostro linguaggio dialoga bene con la componente rock».