L’«orribile mattanza», come il gip di Santa Maria Capua Vetere ha definito i pestaggi di detenuti inermi da parte di agenti di polizia penitenziaria, di cui siamo venuti a conoscenza di recente grazie a fonti giornalistiche, è stata una sorta di premessa che, con altri episodi, apparentemente diversi e separati (le sparatorie e gli speronamenti di barchini carichi di immigrati che dall’inizio dell’anno hanno fatto centinaia di morti nel Mediterraneo), ha costituito una solida base su cui ha poggiato il patto firmato da Giorgia Meloni e da Matteo Salvini, leader di un partito di governo, con l’Ungheria di Orbàn, la Polonia di Kaczynski e altri quattordici schieramenti fascisti o di estrema destra europei. Il documento delinea una visione basata sul ritorno agli Stati-nazione, antagonista rispetto a quella dell’Europa comunitaria impegnata in una crescente integrazione.

Tutto ciò porta a chiederci che ne è stato dell’impegno intenso e appassionato del gruppo di uomini e donne grazie ai quali prese vita il lavoro della Commissione per i Diritti Umani, prevista nel 1945 dallo Statuto delle Nazioni Unite, nate a San Francisco con l’adesione di 51 paesi subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Franklin Delano Roosevelt, che aveva guidato la nazione durante il conflitto, non era più lì per costruire la pace. La sua scomparsa fu un duro colpo per la realizzazione del progetto, di cui era stato il principale sostenitore. Spettò a Eleanor portarlo avanti quando il nuovo presidente, Harry Truman, la delegò a rappresentare gli Stati Uniti – unica donna nella sua delegazione – nel nuovo organismo internazionale.
Il 30 dicembre la ex first lady, forte del consenso di cui godeva, grazie al suo impegno già più che ventennale, nel Congresso e nella società civile, nell’associazionismo e nei movimenti internazionalisti, antirazzisti, pacifisti e per una cultura nucleare, quando ancora era fresca l’impressione destata dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki, s’imbarcò sul Queen Elizabeth alla volta di Londra, dove il 10 gennaio 1946 si sarebbe svolta la prima assemblea generale.

Pochi mesi dopo entrò nella neonata Commissione, incaricata di redigere una Carta Internazionale dei Diritti Umani, di cui all’unanimità fu eletta presidente. Malgrado le forti tensioni tra Unione Sovietica e Occidente, si trovò a lavorare con un gruppo straordinario composto da abili diplomatici, giuristi, studiosi e intellettuali di diversa cultura e formazione. Superando dissidi e tensioni, il lavoro, che si svolse nel corso del 1947 e dell’anno successivo, fu coronato da successo: il 10 dicembre 1948 a Parigi l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani con 48 voti a favore, 8 astensioni e 2 assenze sui 58 Stati (oggi 193) allora aderenti. Di quel documento, composto da un Preambolo e da 30 articoli di cui 22 sui diritti politici e civili e 8 sui diritti economici e sociali, Eleanor Roosevelt è considerata la madrina. Definitolo «Magna Charta dell’umanità», sperò che sarebbe stato rapidamente seguito da patti o trattati vincolanti per l’attivazione dei diritti affermati. Ma le sue speranze andarono in frantumi a seguito del prevalere degli eventi a livello nazionale e internazionale nei mesi e negli anni immediatamente successivi.

Già nel 1940, con la guerra alle porte, aveva scritto un pamphlet per affermare che la democrazia poggia su un fondamento morale. Tornò su questo concetto in uno degli ultimi interventi all’Onu, il 27 marzo 1958, nel quale sottolineò come l’affermazione dei diritti umani cominci dai piccoli contesti nei quali ogni individuo esercita le proprie responsabilità: così piccoli da non poter essere visti su nessuna mappa del mondo, vicino a casa, nel quartiere in cui vive, nella scuola, nella fabbrica, ufficio o fattoria in cui lavora. È qui che ogni uomo, donna e bambino deve trovare giustizia, pari opportunità, pari dignità, senza discriminazioni. Altrimenti cercheremo invano questi diritti universali, e il loro progresso, nel mondo.