Due giorni fa sul manifesto abbiamo letto l’articolo di Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone. La prima parola del pezzo è «finalmente» seguita da un punto esclamativo. Ci parla della relazione conclusiva della «Commissione per l’innovazione penitenziaria» nella quale si «intravede», scrive Gonnella, qualche proposta che potrebbe «avere un impatto significativo in termini di riduzione del danno prodotto dalla carcerazione».
Io partirei da qui per cominciare l’anno nuovo. Due anni di pandemia hanno frullato l’ordine del giorno della nostre priorità. Dal frullatore è uscita una società più liquida, incerta e disordinata. Bisogna riordinare.

La legge 300 del ’70 ci ricorda fin dal primo articolo che «I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero». E vale la pena sottolineare che nelle prime righe si parla di «luoghi dove prestano la loro opera» i lavoratori. Con il cosiddetto smart working stiamo abbattendo questo caposaldo. Come facciamo a tutelare la sicurezza sul posto di lavoro se quel posto è diventata la nostra casa? Un angolo sul tavolo della cucina, una mensola sistemata all’ingresso o uno spazio rimediato in camera da letto? Come facciamo a tutelare le libertà sindacali se i lavoratori non si incontrano più nello stesso luogo, ma devono comunicare tramite la rete?

Mi ricordo il racconto di Graziella, operaia di Pontedera. Ci parlò di una rivendicazione iniziata perché le mogli avevano confrontato le buste paga dei mariti e s’erano accorte che qualcuno aveva lo stipendio pieno nonostante gli scioperi. Dunque avevano compreso che era un crumiro entrato di straforo e pure una spia del padrone. Lo sappiamo che si prende coscienza nelle pause o fuori dai cancelli anche parlando di vita coniugale, di sport e magari anche di cinema e letteratura.

Confrontiamo la complessità della nostra vicenda individuale con quel dispositivo alienante che spesso è il lavoro, come si diceva un tempo, «sotto padrone». L’art 14 dello Statuto dice che «Il diritto di costituire associazioni sindacali (…) è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro». E l’art 26 ci ricorda che «I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro». Siamo sicuri che in quell’oceano inquinato che è internet sia possibile fare «opera di proselitismo»? Siamo sicuri che il confronto, la dialettica e dunque la libertà di espressione non siano messe in un angolo?

Lo smart working esisteva anche prima che lo chiamassimo «smart». Era una maniera per fare in modo che i lavoratori lavorassero tanto senza limiti di orari, con la possibilità di servire più padroni contemporaneamente e senza esigere tutele. Te lo immagini uno sciopero di smart workers? Persone che manco si conoscono tra di loro, che stanno in luoghi diversi, con lingue diverse, assunti tramite subappalti. Ma oggi l’incertezza della precarietà lavorativa è diventata smart, mentre il lavoro fianco a fianco è un pericolo. Un pericolo per il contagio, certo! Ma non possiamo cercare di non buttare via il solito bambino insieme all’acqua sporca?

Ora passo alla scuola e mi basta citare il direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio, Rocco Pinneri che chiede di «denunciare formalmente il reato di interruzione del pubblico servizio e di chiedere lo sgombero dell’edificio, avendo cura di identificare, nella denuncia, quanti possiate degli occupanti». Sta parlando degli studenti che, come accade da decenni, si prendono la responsabilità di autogestire la propria scuola. Cioè di fare politica nel modo più sano e costruttivo: senza ritorni economici e di potere. Invece di coinvolgerli seguendo il meglio della scuola partecipata sviluppando il rapporto col territorio, confrontandosi con le famiglie, le associazioni e i luoghi di produzione culturale, eccetera… li si vuole tutti in fila per tre a risponder sempre di sì.

Chiudo col carcere evocato all’inizio nelle parole di Gonnella. Le immagini di Santa Maria Capua Vetere ci raccontano per l’ennesima volta che le galere sono campi di battaglia nelle quali la società borghese, incapace di gestire il disagio, lo combatte come fosse un esercito straniero e nemico. Un esercito armato ha affrontato i detenuti che, per la maggior parte, sono reclusi per reati connessi alla droga, l’immigrazione e ai mille problemi affrontati esclusivamente con la punizione, la repressione, con i muri e le sbarre. Eravamo certi dell’art. 27 della Costituzione per il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», ma questa certezza è stata manganellata tra quelle sbarre.

Con tutta la speranza possibile affianco il mio sguardo a quello dell’Associazione Antigone cercando di «intravedere» nel 2022 un ottimismo che non proviene dalla possibilità di frenare, ma almeno di lottare contro questa deriva.