In fondo, dopo vent’anni, la domanda è ancora la stessa: «Che fine hanno fatto 1500 miliardi della cooperazione in Somalia?». Appuntata con grafia veloce su un quaderno, quella domanda è l’eredità di Ilaria Alpi. Un segnalibro, posto a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica, in un intreccio tutto ambientato in terra somala. Ovvero in quel territorio che dall’epoca fascista in poi l’Italia ha sempre concepito come una estensione della penisola, una zona franca dove far transitare i peggiori traffici.

Dietro quella cifra – molto probabilmente sottostimata – ci cela uno dei tanti segreti custoditi ancora oggi negli archivi della Camera e del Senato. Faldoni con il nome Somalia stampato, accanto al timbro «Riservato». Una cifra, quella citata dalla giornalista del Tg3, che racconta l’interesse strategico che l’Italia ha avuto per decenni nel Corno d’Africa. Contro questa mai dichiarata «ragion di Stato» si sono scontrati parlamentari e magistrati, nelle tante inchieste che giravano attorno al caso Alpi e ai traffici riservati, di armi e di rifiuti.

La prima procura ad aprire il vaso di Pandora della Somalia fu quella di Milano. Il Pm Gemma Gualdi – pochi mesi dopo l’omicidio Alpi e Hrovatin – indagò sui file della cooperazione e su un’ipotesi di traffico d’armi, partendo da una bislacca richiesta – in sede civile – di un gruppo di somali, che avevano reclamato il pagamento del 10% sulle commesse. Nulla di fatto, fascicolo archiviato. Subito dopo toccò alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla cooperazione, che arrivò ad organizzare una missione in Somalia. I parlamentari non riuscirono a concludere i lavori – la prima legislatura Berlusconi terminò nel 1995 – ma negli atti sono conservate le parole durissime di una relazione della Corte dei Conti, che in sostanza ha definito «inutili» gli interventi della nostra cooperazione. Eppure – sottolinea quella commissione d’inchiesta – dal governo Craxi del 1984 «la Somalia ha rappresentato il principale destinatario dei finanziamenti della cooperazione italiana». Torna dunque la domanda annotata su uno dei bloc notes di Ilaria Alpi: che fine ha fatto quella montagna di soldi?

Il pubblico ministero di Asti, Luciano Tarditi, ha indagato a lungo sul filo che lega l’Italia alla Somalia, partendo dall’imprenditore esperto di logistica Giancarlo Marocchino. Due le ipotesi seguite: l’occultamento di documenti della cooperazione «in grado di far saltare il ministero degli affari esteri» e un accordo – poi non realizzatosi – per l’invio in Somalia di rifiuti tossici italiani. Anche in questo caso i fascicoli sono finiti in archivio. Ancora più complessa è poi l’inchiesta della procura romana sul duplice omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. L’indagine è passata per le mani di tre differenti pubblici ministeri, prima di concludersi – molto parzialmente – con la condanna di Omar Hashi, somalo ritenuto componente del gruppo di fuoco. Ancora oggi, a distanza di vent’anni, rimane il mistero sui mandanti e sugli organizzatori dell’agguato. Alcuni punti fermi sono però ormai acquisiti, soprattutto grazie alla tenacia dei genitori di Ilaria Alpi e di alcuni giornalisti investigativi: è certo il motivo che portò Ilaria verso il nord del Corno d’Africa, a Bosaso, seguendo la pista delle navi della cooperazione italiana; ed è certo che l’agguato del 20 marzo 1994 fu premeditato e organizzato nei minimi dettagli, con un gruppo di fuoco consistente. Recentemente è stato pubblicato su ilfattoquotidiano.it un documento attribuibile – almeno in apparenza – al servizio segreto della Marina militare, che faceva riferimento ad una operazione in corso nell’area di Bosaso, saltata «causa presenze anomale». La data del messaggio – partito da La Spezia e diretto al contingente italiano in Somalia – era il 14 marzo 1994, ovvero il giorno dell’arrivo di Ilaria e Miran nella città del Puntland. Un mistero, questo, mai chiarito fino in fondo. Come non è stata mai chiarita la vicenda di un testimone chiave, tale Gelle, unico accusatore diretto del somalo Hashi oggi detenuto. Nel 2003 in una telefonata con un giornalista della Bbc – registrata – dichiarava di aver mentito. La procura di Roma lo ha indagato per calunnia, ma nulla è accaduto: nessuno è stato in grado di trovarlo in Gran Bretagna, dove risiede con lo status di rifugiato politico.

I servizi di sicurezza hanno sempre sostenuto di non aver svolto alcuna indagine sul caso Alpi e che tutti i loro documenti sono stati integralmente depositati alla magistratura e davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta. Le carte conosciute sono decisamente scarse e generiche e le audizioni piene di tanti «non ricordo».