Torna a Roma la seconda edizione europea della Maker Faire, il “luogo dove gli innovatori del terzo millennio mostrano i progetti a cui stanno lavorando e condividono il sapere tecnologico e artigiano”. La fiera, perché di questo si tratta, è iniziata ieri all’Auditorium Parco della Musica e si concluderà il 5 ottobre. Nelle sale disegnate da Renzo Piano vengono ospitati circa 600 espositori da 33 paesi. Loro preferiscono però chiamarsi “makers”, perché all’applicazione massiccia delle tecnologie digitali associano l’orgoglio degli artigiani tradizionali – la cultura del fare, che in inglese si dice appunto “make”. Le invenzioni che si possono toccare con mano (è fortemente consigliato) alla Maker Faire spaziano in campi molto diversi tra loro: si va dai robot da montare nella camera dei figli ai sismografi fai-da-te connessi in rete. Non mancano i vestiti che chiamano l’ambulanza via bluetooth in caso di infarto e le ormai celebri stampanti tridimensionali che, invece di ruminare fogli A4, plasmano colorati oggetti di plastica con un semplice click. In comune, i progetti esposti alla Maker Faire hanno il basso costo, il bricolage e la produzione rigorosamente non seriale.

I “makers” sono cugini non troppo lontani degli “hackers”, gli smanettoni in grado di riprogrammare reti e computer per metterli al servizio dell’uomo, piuttosto che l’inverso. Però, oltre che sul software i makers si esercitano sull’hardware, portando nella realtà i diritti finora conquistati solo negli spazi virtuali della rete: la libertà di progettare le tecnologie della vita quotidiana e di scambiarsi invenzioni senza i limiti imposti da brevetti e copyright.

Intorno a questi principi si è costituito un vero e proprio movimento globale. Gli adepti, che una volta agivano nel buio solitario di cantine e garage, oggi si incontrano nei cosiddetti FabLab, officine attrezzate aperte a chiunque voglia mettere alla prova le sue capacità manuali. Nati al Mit di Boston, oggi i FabLab costituiscono una rete mondiale (ce ne sono una quarantina solo in Italia). Le Maker Faire, organizzate secondo un analogo formato in tutto il mondo, rappresentano la principale liturgia collettiva del movimento; la rivista “Make”, che nel 2006 le ha lanciate, funge al tempo stesso da pensatoio e showcase. Nonostante le apparenze, i protagonisti di eventi come quello romano non sono semplici hobbisti, ma hanno più o meno tutti in testa una strategia imprenditoriale. La scommessa comune è rendere sostenibile un’economia su piccola scala ma connessa a livello globale grazie a Internet e alla partecipazione degli stessi utenti al finanziamento di queste micro-imprese. Non è un’idea nuovissima: la crescita di piccole aziende sostenuta da capitali di investimento è un meccanismo fisiologico del ciclo capitalistico. Finora, però, i finanziatori erano rappresentati da banche e fondi di investimento, presi all’amo da business plan ambiziosi. Oggi, invece, i makers che vogliono lanciare i loro prototipi sul mercato saltano gli intermediari tradizionali e si rivolgono direttamente ai singoli cittadini, che per curiosità o interesse intendono contribuire alla realizzazione commerciale dei nuovi prodotti. Sono nati così siti internet come Kickstarter, Indiegogo o l’italiana Produzioni dal basso attraverso cui chiunque può proporre un’idea o partecipare a una colletta per realizzarla. Può trattarsi di un gadget elettronico o di un film ma c’è pure chi è riuscito a racimolare 55000 dollari per realizzare un’insalata di patate (abbondante, si presume). Data la difficoltà di reperire credito attraverso i canali finanziari tradizionali, per molti innovatori il cosiddetto “crowdfunding” (finanziamento di massa, in inglese) rappresenta l’unica chance a disposizione. E spesso funziona: tra utenti e inventori si stabilisce una collaborazione e una flessibilità adatti allo sviluppo di progetti dal futuro incerto e dimensioni economiche ridotti. Oltre 70mila progetti sono stati realizzati grazie a Kickstarter, per un totale di un miliardo e trecento milioni di dollari finora raccolti.
L’apparente autonomia di questo circuito economico ha condotto qualcuno (molti) a evocare una vera e propria “rivoluzione dei makers”. In Italia, più che di evocazione si tratta di invocazione, perché l’apparizione simultanea di idee innovative e credito accessibile rappresenterebbe davvero il miracolo di San Matteo. Il miracoli non esistono, ma anche in contesti meno malandati del nostro si guarda al movimento dei makers come a un possibile “nuovo capitalismo”. Secondo i fautori più entusiasti, la democratizzazione della creatività e dei mezzi per metterla a frutto avrà una ricaduta sostanziale in tantissimi ambiti della società. I consumatori in grado di costruire da sé il proprio habitat tecnologico non si accontenteranno più dell’omologante produzione di massa ed esigeranno merci personalizzate e trasparenti riguardo al loro impatto ambientale. Ma la rivoluzione dilagherà anche fuori dal mercato. Una ricerca recente firmata dalla rivista Make e dalla Deloitte, una delle più importanti società di analisi e consulenza al mondo, ha individuato i settori in cui, secondo gli ottimisti, nulla sarà più come prima.
Tecnologie a basso costo e smontabili come i Lego cambieranno innanzitutto il modo di andare a scuola. Invece di starsene seduti tra i banchi ad ascoltare noiose lezioni teoriche, gli alunni studieranno in classi-laboratorio, dove l’apprendimento sarà sempre accompagnato dall’attività pratica. Chi avrà avuto la pazienza di leggere le 136 pagine con cui Renzi ha presentato la sua riforma per la “buona scuola”, ora sa da dove proviene quel misterioso invito a docenti e alunni a “praticare tecniche di stampa 3D”. Anche il rapporto tra cittadini e istituzioni è destinato a cambiare. I primi saranno in grado di sviluppare da sé strumenti sofisticati (ad esempio, per il monitoraggio ambientale) che inchioderanno esperti e decisori politici alle loro responsabilità. Allo stesso tempo, gli strumenti permetteranno ai cittadini di contribuire a progetti di scienza “partecipata”. Diversi esempi di questo tipo, per la verità, sono già in corso, e in molte città la qualità dell’aria o i livelli di radioattività sono tenuti sotto controllo da reti informali di volontari equipaggiati dai makers. Anche l’assistenza sanitaria potrà essere almeno in parte affidata agli stessi pazienti, che potranno monitorare le proprie condizioni con l’aiuto di programmabili e sensori low cost.
“>Queste promesse sono ancora per lo più allo stato embrionale. E’ comprensibile che intorno ad esse si siano già coagulate notevoli aspettative: i makers promettono di migliorare dal basso (ma anche al riparo da conflitti politici) settori in difficoltà come sanità, scuola e ricerca, che per molti rappresentano un lusso ormai insostenibile. E mentre in alcuni casi, come quello della scuola, una maggiore diffusione della filosofia do-it-yourself è auspicabile, in altri, come la sanità, c’è il rischio che la sbandierata partecipazione dei pazienti nasconda invece un ulteriore processo di subappalto.

Le aspettative sono alimentate anche da un battage efficace, promosso da alcune figure carismatiche che spesso si alternano nel ruolo di imprenditori e di comunicatori. Chris Anderson, ex-direttore di Wired (la rivista-faro dei nerds e dei geek), dopo aver plasmato l’immaginario virtuale di una generazione di internauti oggi produce droni da montare a casa e promuove il verbo maker: “Quando un oggetto virtuale si trasforma in qualcosa che puoi toccare e usare nella vita quotidiana, ne ricavi una soddisfazione che i puri pixel non possono dare”. Mark Hatch, l’autore del “Manifesto del movimento maker” è anche l’amministratore delegato della TechShop, una catena privata di officine simili ai FabLab, e tra i suoi finanziatori figura anche il ministero della difesa statunitense. Sempre da Wired (ne è stato un fondatore) proviene Kevin Kelly, che oggi anima la comunità dei “Quantified Self”, gli impallinati che coi sensori addosso quantificano e registrano ogni loro attività, dalle calorie consumate al tempo dedicato alla meditazione zen. Kelly è anche l’autore di “Cool Tools” e nell’introduzione paragona quella dei makers alla “terza rivoluzione industriale”. Non stupisce che anche Riccardo Luna, uno dei curatori della Maker Faire romana, sia un ex-direttore di Wired (ma dell’edizione italiana) impegnato su più fronti. Proveniente dal giornalismo cattolico e poi calcistico, saggista complottista in collaborazione con il mitico Giacobbo di Voyager, appena nominato da Renzi “digital champion” per promuovere l’innovazione e l’agenda digitale in Italia, oggi Luna è l’indiscusso promoter della rivoluzione maker a casa nostra. L’altro curatore è Massimo Banzi, l’ideatore del microprocessore Arduino che sta al cuore della quasi totalità degli aggeggi esposti nelle Maker Faire.

La miscela di futuribile anarchia e marketing all’antica ha suscitato anche diverse critiche nei confronti della “rivoluzione”. Evgeny Morozov, autore de “L’ingenuità della rete” (Codice, 2011) e uno dei più ascoltati analisti delle nuove tecnologie, ha dedicato ai makers un saggio per niente tenero sulla rivista New Yorker: “Per diventare un maker, serve innanzitutto una carta di credito”, ha scritto paragonando “Cool tools” a un catalogo di Postal Market e i makers ai clienti di Ikea. “La nostra immaginazione tecnologica è ai suoi massimi. Ma la nostra immaginazione istituzionale si è arrestata, e con essa il potenziale democratico delle tecnologie”. Secondo Morozov, oggi non basta detenere la proprietà dei mezzi di produzione, come vantano gli appassionati delle stampanti 3D, se non si controlla anche la cosiddetta “economia dell’attenzione”. Se tutti possono chiedere soldi su Kickstarter, ottenere attenzione diventerà sempre più difficile. “Avere cinquantamila amici su Twitter aiuta”, sostiene Morozov, così come essere in evidenza negli indici di Google. Si renderà necessario un investimento pubblicitario che non è affatto alla portata di tutti. “La buona notizia è che non devi preoccuparti di essere licenziato. Quella cattiva è che devi preoccuparti di essere retrocesso da Google”.

A prescindere dal suo significato politico, la Maker Faire è uno spettacolo per grandi e piccini a cui non mancare. Nel 2013 i visitatori furono oltre trentamila a dimostrazione che, almeno sul piano dell’organizzazione di eventi, il movimento maker è già una realtà economica importante. Solo in futuro però capiremo se si tratti di una rivoluzione o sia solo un pranzo di gala. In ogni caso, l’insalata di patate non dovrebbe mancare.