Nell’ultimo numero di Foreign Affairs vi è un lungo saggio su Putin the Great, the Russia’s, Imperial Impostor, lo firma una nota giornalista liberal, Susan B. Glassner, e per ciò stesso particolarmente distruttiva nei confronti di uno dei pochi «politici professionali» di lungo corso. Al contrario di Trump, di Macron, di Erdogan, del principe ereditario saudita, e di Di Maio – tanto per cadere in basso.

Eppure nessun capo di stato è tanto odiato dai media occidentali. Nella sua intervista del 19 giugno 2019 al Financial Times Putin ha definito «obsoleta» l’idea liberale dal momento che la gente ha dimostrato di essere contro il multiculturalismo, l’immigrazione, le porte aperte. Il giorno dopo i media titolavano che il padrone della Russia era contro la democrazia liberale. E al momento tutti si scervellano sul significato delle riforme costituzionali appena promesse, del licenziamento del suo governo, delle sue reali mira. E anzi non vi sono dubbi che si sta muovendo per non muoversi mai più dal suo ruolo di zar.

E a questo punto solitamente comincia l’analisi delle sue «imposture»: come può un piccolo funzionario dei famigerati servizi segreti sovietici credersi in grado di mettere sotto i piedi il paese e persino lanciarsi in una politica di potenza da guerra fredda e tornare a giocare la sua partita a scacchi con Usa e Europa, sfidarle con la riconquista della Crimea, con la difesa della Siria di Assad e magari domani con quella dell’Iran? Come può andare allo sbaraglio con un’economia in crisi per le sanzioni, con un consenso in calo, e con il fiato sul collo della Cina, fiera di quello che il suo partito comunista ha ottenuto scegliendo il soft power invece della parità strategico-militare del fu partito sovietico. Eppure quando Putin e Xi si incontrano, si riconoscono per quello che sono: due politici professionali al lavoro con le rispettive strategie di sopravvivenza e di successo del proprio paese. Di errori ne fanno e tanti e il primo è non tener conto dell’opinione pubblica.

Va fatto, però, un minimo di chiarezza su come Usa e Europa si sono comportati nei confronti della Russia, dopo la fine dell’Urss.

Per tutti gli anni ’90 l’hanno considerata quasi una loro nuova colonia, cui prestare economisti perché garantissero il passaggio al capitalismo, esperti di diritto perché adeguassero il sistema giuridico ed esecutivo e uomini del Pentagono e della Cia perché vigilassero sulla distruzione dell’apparato militare e di quello dei servizi. Quando nel decennio successivo il piccolo funzionario del Kgb ha terminato il suo praticantato, ha cominciato a mostrare le sue intenzioni di farlo tornare indipendente. Le vie erano due: la prima era il governo in mani russe, il secondo era riaprire le città chiuse, messe fuori uso e tornare ad armarsi sacrificando ancora una volta le aspettative di benessere della popolazione. È stata quest’ultima decisione a rendere Putin così ostico a Usa e Ue.

Si è fatta fare la guerra in Jugoslavia, uscita frantumata per azzerare la minoranza serba, si sono allevati al meglio i paesi est europei, ansiosi di tornare agli anni ’30 in politica e avere tantissimi soldi dall’Ue. Si sono installate basi nelle ex repubbliche asiatiche affinché il cerchio intorno alla Russia europea fosse sicuro.
Poteva andare diversamente? E qui la domanda va fatta alla Germania. Putin e Merkel si parlano in tedesco (l’ex funzionario del Kgb è vissuto sette anni in una delle più belle e colte città della Germania, la Dresda distrutta dagli inglesi e ricostruita dai russi e dai tedeschi) e Merkel conosce bene che cosa significa vivere in un sistema sovietico e meglio valutare gli sforzi di Putin per venirne fuori lasciando però in piedi l’orgoglio di quelli che avevano perso con l’Urss l’illusione di un’alternativa al capitalismo. A cominciare da suo padre che era un operaio specializzato udarnik e al contrario di quello che raccontano i media, viveva in un appartamento singolo.