Franco Corleone pubblica presso le Edizioni Menabò Piero Gobetti e il logo ritrovato, con una prefazione di Pietro Polito, direttore del Centro studi Piero Gobetti di Torino. È questo un libro che bene può esser detto speciale. Esso consente infatti che lo si possa accostare da più lati. Il titolo dà, giustamente, rilievo al particolare tema che Corleone privilegia ossia il racconto di come avvenne la scelta di un motto suggerito da Augusto Monti e affidato alla realizzazione grafica di Felice Casorati e dalla casa editrice ‘Piero Gobetti Editore’ assunto come logo nel 1923.

E tuttavia anche lettori mossi da interessi diversi da uno studio della storia dell’editoria italiana del Novecento o non spinti da una sollecitudine e da una passione di bibliofili, trovano nel Piero Gobetti di Corleone sicuri motivi di attrattiva. Quei motivi e quegli stimoli che suscitano il profilo culturale e politico di Gobetti, la straordinaria vicenda di un prodigioso giovane che a venticinque anni, nel 1926, ha troncata la vita e che, in un così breve arco di tempo, tesaurizza tale un patrimonio di pensiero e un tale esempio di nobiltà d’animo da costituire un lascito tra i più cospicui della cultura italiana del Novecento.

Il volume accoglie, non per caso, una ‘piccola antologia’ di preziosi articoli, apparsi tra il 1922 e il 1925, estratti da «La Rivoluzione Liberale» (la rivista che Guanda ristampò in anastatica nel lontano 1967) ed è corredato dalle riproduzioni fotografiche delle copertine originali di numerosi libri editi da Gobetti dovuti ad autori che formano l’ideale cenacolo d’una Italia civile: da Luigi Salvatorelli a Tommaso Fiore; da Eugenio Montale a Giovanni Amendola; da Gaetano Salvemini a Guido Dorso; da Adriano Tilgher a Enrico Pea. Al retaggio di Gobetti e della sua casa editrice («ricca di titoli e di autori che costituiranno un patrimonio culturale e politico che rimane un modello unico e irripetibile») Corleone si è costantemente ispirato e ad esso si è attenuto nello svolgere il suo impegno politico se, come scrive, «‘cultura, intelligenza e amore per la libertà’ sono parole preziose e costituiscono davvero per me il fondamento per far vivere la nobiltà della politica».

Torno alla ‘storia’ logo e precisamente alla sua nascita registrata nella cartolina che Augusto Monti invia a Gobetti da Brescia, il 23 luglio del 1923, riprodotta e trascritta da Corleone e che di seguito riporto: «Carissimo, ho pensato allo ‘stemma’ per R.L. (La Rivoluzione Liberale) e se si riprendesse quello del Campanella? Campana in volata, col motto non tacebo! Ma forse è meglio rifarsi all’Alfieri: riprendere e adattare lo stemma degli Alfieri di Cortemilia (sai tu quale fosse? io no; ma si fa presto a trovarlo); e se il motto di questo stemma non va, sostituirlo con quell’altro, bene alfieriano, in greco: ti moi sun douloisin; (che ci ho a che fare io coi servi?).

E così ci sarebbe la rivoluzione e l’aristocrazia e la libertà e il Piemonte, e l’Italia e tutto insomma quello che a noi preme di più». Gobetti non ha dubbi. Fa sua la scelta di Monti né la muta quando, qualche giorno dopo, gli giunge da Alassio una lettera di Carlo Levi che gli propone, come logo, l’immagine della cicala: «son bestie un po’ noiose, ma in compenso classiche, simboli del canto e della poesia»

«Che ci ho a che fare io coi servi?»: parole che, diresti, è il libro stesso a rivolgere perentoriamente, senza indugio per dir così, a chi per avventura lo abbia tra le mani. In quel motto si afferma il libro come libertà. E l’editore come uomo libero: «Ho in mente una mia figura ideale di editore, scrive Gobetti, quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (perché l’editore dev’essere fondamentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante) non sono troppe anche per ilo mio editore ideale.

L’importante è ch’egli non debba aver la condanna del nostro pauperismo, non debba vivere di ripieghi tra le persecuzioni del prefetto, il ricatto della politica attraverso il commercio. La verità è che paragonata colla cultura europea moderna l’Italia manca di autori, di editori, di librai, di pubblico».