Calano dall’alto figure imbozzolate, raggomitolate. Spogliate di tutto, se non del loro potere perturbante – esibito in modo diretto, brutale. Non geometricamente, ma psichicamente al centro del bianco dell’«Artist Room», al quarto piano della Tate Modern, troneggia un grande ragno metallico nero, i cui lunghi artropodi poggiano sul parquet lucido (sarà esposto qui sino alla metà dell’anno prossimo). Non è il primo scolpito da Louise Bourgeois, ma in molti sensi è il definitivo. L’ha realizzato a quasi novant’anni, nel 1999, e l’ha intitolato Maman. Esposti sono anche alcuni suoi manoscritti (in italiano si leggono in Distruzione del padre/Ricostruzione del padre, a cura di Marie-Laure Bernadac e Hans-Ulrich Obrist, edito da Quodlibet nel 2009). In uno di essi si legge: «come un ragno, mia madre era una tessitrice e, come i ragni, mia madre era molto intelligente. I ragni sono utili e protettivi, proprio come mia madre». In analisi per più di un trentennio, Bourgeois non si peritava di esplicitare riferimenti psicoanalitici nei suoi scritti e anche nei titoli dei suoi lavori (come Arch of Hysteria, del ’93, pure esposto a Londra); conosceva bene l’ambivalenza di queste parole, tanto nel concetto di maternità che in quello di protezione.
Vietata la gomma
Non è la prima volta che a colpirmi tanto sia una sincronicità di immagini. Il pomeriggio di quello stesso giorno, all’Istituto italiano di cultura, Marco Belpoliti mi presenta Luca Santiago Mora e un libro che non mi lascia illeso. L’Atlante di zoologia profetica, magnificamente stampato da Corraini (in collaborazione con la Collezione Maramotti di Reggio Emilia, pp. 258 ill. col., € 45,00), ha a sua volta in copertina, infatti, un gigantesco ragno metallico. A immaginare l’Immane RagnoFerro di Curnasco sono tre degli adolescenti (i loro nomi sono Niccolò, Nuru e Nicolas) che dal 2002, al reparto di Neuropsichiatria Infantile di Reggio o a quello di Bergamo, oltre ai medici che li hanno in cura, hanno trovato un tipo che li «cura» in modo diverso: Luca Santiago Mora, appunto. Che li descrive così: «ritardi più o meno gravi, difficoltà di apprendimento, dislessie, disprassie, ipercinesi, fino al misterioso e onnivoro contenitore dell’autismo». E che mette loro in mano pastelli matite pennelli, fogli di carta belli grandi (le dimensioni sono importanti: l’originale dell’Immane RagnoFerro misura tre metri d’altezza, e per far spazio ai mostri più lunghi l’Atlante – come i libri di una volta, che oggi nessuno vuol più fare – impiega meravigliose, grandi pagine a soffietto) e due regole semplici, le uniche. Primo: si disegnano solo animali. Secondo: è vietata la gomma da cancellare. Ogni svista, lapsus, appunto errore commesso dai ragazzi resterà sulla carta, come i loro mostri: oggi esposti al Museo di Storia Naturale di Bergamo ma, da qualche anno, in giro per l’Italia e il mondo. Le Bestie stesse sono frutto di un Errore: «dicono che quelle bestie lì sono quelle che non hanno dato retta a Noè», spiega Santiago Mora, «e non ci son volute salire in quell’Arca venuta su in mezzo al deserto, o sono arrivate in ritardo, come sempre, come a scuola».
Dubuffet e Szeemann
Alle spalle, un retroterra concettuale fortemente connotato. L’arteterapia, l’art brut di Jean Dubuffet, l’arte relazionale di Joseph Beuys, gli «outsider» di Harald Szeemann (non casuale, fra gli scritti raccolti da Belpoliti a commentare le immagini, quello di Massimiliano Gioni, che alla Biennale di Venezia del 2013 ha raccolto il testimone di Szeemann). Così come il titolo dell’«Atlante» non può non far pensare al Manuale di zoologia fantastica, compilato nel 1957 da Jorge Luis Borges con Margarita Guerrero. Eppure qui vengono attinti strati più remoti – e più rivelatorî. Se quella di Borges è la selezione, umorale quanto arbitraria, di un repertorio culturale sconfinato (perciò meno compatta risulta l’edizione aumentata di dieci anni dopo, Il libro degli esseri immaginari su cui si basa la versione curata nel 2006 da Tommaso Scarano per Adelphi), i ragazzi dell’Atelier – che pure mostrano, oltre a miracolose attitudini alla forma e al colore, una sorprendente competenza nella nomenclatura scientifica – questo materiale psichico lo gettano sulla carta in modo diretto, senza sovrastrutture culturali né psicoanalitiche.
Fra gli scrittori che conosco, una simile violenza appartiene solo a Kafka (l’autore più citato da Borges) e a Landolfi (a dispetto della psicoanalisi da lui impiegata – diceva bene Calvino – in funzione dissimulatoria). Quando m’imbatto nel mio mostro preferito, Lo Squalatore Sessuale che si bacia le ferite (un immenso verme verde bimembre, un cui corpo versa nell’altro il proprio contenuto immondo), o nel Verme Assassino che mangia tutti quelli che attraversano il mare, non posso non pensare al Mar delle Blatte, e al modo in cui le Perturbanti Presenze di quella visione, come il Gran Verme che si ergerà a suo rivale sessuale appunto, fuoriescano dalle vene del grigio protagonista, Roberto Coracaglina (a sua volta destinato a metamorfosarsi in Alto Variago). È dagli strati più profondi della psiche che provengono i mostri: non «la semplice restituzione dell’impressione retinica prodotta da un flusso ottico», spiega Giuseppe Di Napoli, ma «un substrato di immagini mnestiche, oniriche, simboliche, chimeriche». E non è un caso che a produrle sia l’«ingenuità così perversa», dice Ermanno Cavazzoni, dei bambini. Lo diceva anche Borges: «il bambino è per definizione uno scopritore», e ci fa capire come mai certe figure siano apparse a latitudini remote e in tempi lontani: «ignoriamo il senso del drago, come ignoriamo il senso dell’universo, ma c’è qualcosa nella sua immagine che si accorda con l’immaginazione degli uomini». Non è un caso che si riferiscano a Jung (il quale tanta importanza attribuiva al disegno e alla pittura, dei pazienti e di se stesso), nell’Atlante, Luigi Zoja, Nicole Janigro ed Eva Pattis.
Furia è già un Lovecraft
Non ci sono solo le immagini, però. I nomi dati alle Bestie sono già, in nuce, delle storie: Furia Buia Morte Susurrante è già un Lovecraft. Commuove il Pangolino che sta vomitando per farsi notare da una femmina (opera di due ragazze, Giulia e Paola; quest’ultima, insieme a Matilde, s’intenerisce meno nel concepire un’Animale vendicatrice che attira il maschio con la parte esterna dell’utero). Le didascalie dei ragazzi sono a loro volta riportate senza editing. Sotto Io sono il capo del Platavernia che mi protegge da Vittorio Barale, per esempio, si legge: «è grande e quindi divora più di 196mila persone sopra tutto Vittorio Barale che mi picchia nel collo e nella schiena, mi chiama ghiacciolo, mi ruba i soldi e mi fa gli sgambetti di nascosto e io caposcivolo». Si vede qui, come pure in Vendicatore di Notte che divorisce dei compagni di classe che io mi avvicino e loro si allontanano e dicono che puzzo, come – proprio allo stesso modo di Bourgeois – i ragazzi dell’Atelier vedano in questi animali, per quanto orrorifici, dei Protettori (esplicitamente tale è l’Animale Custode di Francesca, che mi protegge da chi mi chiama Brufolona e Fenomeno da Baraccone). «Questi sono disegni cattivi, cioè incaricati di fare giustizia e vendetta», scrive Cavazzoni.
In questo senso forse l’archi-mostro, in cui si condensano tutte le offese subite e tutte le rivalse sognate, è il Catoblepa che si nutre delle parti molli dei bambini. Il nome stesso di questa Bestia, spiega Borges, vuol dire in greco «che guarda in basso»: e così fa, a differenza del Basilisco e della Gorgone, perché sa cosa potrebbe produrre il suo sguardo – se solo lo alzasse. Nella Tentazione di sant’Antonio di Flaubert, così si rivolge al Santo: «Nessuno, Antonio, mi ha mai visto gli occhi, o chi li ha visti è morto. Se alzassi queste mie palpebre rosate e gonfie, moriresti all’istante». Diceva Louise Bourgeois che «gli artisti si ripetono, perché non hanno accesso a una cura». Non so se una cura i ragazzi dell’Atelier la troveranno mai, né se la stiano cercando davvero. Certo è che, finalmente, hanno alzato gli occhi. E, per chi quegli occhi li ha guardati, cura non c’è.