«Un’orchidea travestita da ortica », la definiva il padre, Serge Gainsbourg, che subito aggiungeva: «Sempre meno ortica, sempre più orchidea». Oggi l’ex ortica adolescente ha 50 anni, compiuti da poco: sempre adolescente, la silhouette scomposta di un’età in crescita, un pallore dove si rannicchia l’ elegante sofferenza d’animale ferito, la voce che è un alito di vento. «Exquise esquisse», schizzo squisito, come Charlotte Gainsbourg è ribattezzata da Madame Figaro, uno dei mille media, da Marie Claire a Télérama, da À nous a Point, alle trasmissioni tv più affervescenti, che la coccolano e la stringono d’assedio da decenni: da quando, a 13 anni, è divenuta una promessa del cinema francese con il film d’esordio Paroles et Musiques dell’84 ai due film, uno da protagonista, l’altro da regista esordiente, distribuiti in Italia da Wanted Cinema, Suzanna Andler e Jane by Charlotte, che la figlia di Jane Birkin e Serge Gainsbourg, verrà a presentare a Torino in epilogo della 39ma edizione del TFF.

Arriva dopo film a ripetizione – alternati alle tournées musicali e ai dischi (tra cui il primo con il padre, Lemon Incest) – che includono i tre del sulfureo Lars Von Trier, Antichrist, Melancholia, Nymphomaniac, e i tre italiani: Sole anche di notte dei Taviani, Incompresa di Asia Argento, Golden Door di Emanuele Crialese, anteprima dorata nel 2008, alla presenza dell’attrice, al Festival italiano di Parigi Cinéma Miracolo. In quest’arco di vita professionale s’innestano episodi privati, felici o dolorosi, tutti fondamentali : la relazione dal 1991 con il cineasta Yvan Attal, i tre figli, Ben, Alice e Joe (24, 19 e 10 anni), la morte del padre trent’anni fa e quella, nel 2013, della sorella Kate Barry, seguita dalla sua fuga a New York, da cui Charlotte è rientrata, sette anni dopo, riapparendo su France 2 il 21 ottobre 2020, nella prima puntata della quarta e ultima stagione della popolare serie Dix pour cent.

Presidente di giuria lo scorso settembre al 47mo Festival du Cinéma Américain di Deauville, l’icona più singolare del cinema indipendente confida malesseri e frustrazioni di un’esistenza che appare invece, non solo artisticamente, piena e realizzata: « Sento di non aver approfittato abbastanza dei miei 30 anni, dei miei 40. E, arrivata ai 50, non ho affatto l’impressione di aver raggiunto la saggezza che conviene a questa età… Mi piacerebbe sentirmi placata… La timidezza mi ha tenuto lontana dagli altri, da tutto: ce se n’accorge tardi. E adesso continuo a cercare di recuperare il tempo perduto».

La morte di sua sorella Kate ha segnato un distacco prolungato dalla Francia e da Parigi dove ora è tornata a vivere.
Per quasi 7 anni mi sono rinchiusa in casa a New York, con i miei figli più piccoli. Yvan ci raggiungeva con continui andata-ritorno. Ma dall’aprile dell’anno scorso la pandemia aveva reso New York una città deserta, da fine del mondo: ho anche avuto paura. Tornata a Parigi, nel VIIe arrondissement. ho ritrovato Yvan e mio figlio Ben. Alice, allora 18enne, ha preferito restare negli Usa per continuare i suoi studi in un campus.

I suoi anni americani sono stati comunque artisticamente fecondi?
Direi di sì, quindici film (di Lars von Trier, Wim Wenders, Arnaud Desplechin, Yvan Attal …): e il più intimo dei miei album, Rest, dove per la prima volta ho scritto i testi delle canzoni in francese, evocando mia sorella e, in Lying with You, la morte di mio padre. A New York, città che ti stimola tanto, non mi sono risparmiata. In più, là ero anonima, come dentro una bolla. Mai mi sono potuta concentrare così.

Come si è trovata in «Suzanna Andler», algida trasposizione di Benoît Jacquot d’un’algida pièce di Marguerite Duras?
Ruolo controcorrente per me. Donna dell’alta borghesia, ricca, oziosa, al limite del suicidio, stretta tra doveri coniugali e desiderio. Le riprese si sono svolte interamente in una villa deserta sulla Costa Azzurra, fuori stagione, in un clima d’opaco confinamento.

Contenta di «Jane par Charlotte», presentato fuori concorso a Cannes (dopo l’anticipazione di Unifrance)?
È il mio primo documentario da regista, uscito da un mese in Francia: mi ha soprattutto permesso di riaccostarmi a mia madre, dopo anni di separazione. È il risultato di tre anni di lavoro : ci siamo inseguite da una tournée all’altra, dal Giappone in cui si esibiva mia madre a New York dove m’ero asserragliata. Il film si è andato costruendo in modo accidentale, per una serie di coincidenze felici: provo un piacere enorme davanti alle cose che mi scivolano tra le dita, lasciando lavorare il caso. Avremmo dovuto presentarlo insieme al Festival di Deauville, ma mia madre è stata sfiorata da un malanno cerebrale – capitato anche a me nel 2007 – da cui si sta rapidamente rimettendo. Il film è un continuo dialogo tra me e lei, uno scambio di confidenze figlia-madre dopo troppi anni di assenza: è fatto di momenti assai impudichi e, nello stesso tempo, discreti.

Un diario binario di parole e immagini?
È fitto di confidenze, rivelazioni, è disseminato di ricordi. M’è parso che crescesse qualcosa tra noi: un rapporto all’inizio molto timido, timoroso, divenuto alla fine disteso, sereno. Son confessioni dove ricorrono i sensi di colpa di mia madre, ora 74enne, le insonnie che agitano le sue notti fin da bambina o il ricordo del primo matrimonio con John Barry: e, naturalmente, il ricordo di mio padre e la nostra casa di rue de Verneuil, che ho acquistato dopo la sua morte e che ora verrà trasformata in museo.

Gli scambi si concludono tra le memorie di Serge Gainsbourg. Sorpresa che Jane Birkin non le abbia mai chiesto di rientrare in quella casa, dove avete abitato per anni?
In realtà avrebbe voluto che l’invitassi molto prima, ma non ci avevo mai pensato: non credevo che fosse un suo desiderio. Il mio rapporto con la rue de Verneuil è stato talmente intimo che non mi è mai venuto in mente di condividerla. Solo quando qualcuno me lo chiedeva. Allora aprivo e lasciavo entrare: capivo la forte emozione che si provava. Ma non l’ho mai proposta per prima. Entrare in quell’appartamento mi sconvolge. Con gli anni mi sono un po’ calmata, ma ogni volta vado trent’anni indietro. Che favola, quando ci penso, aver avuto due genitori che si sono così divertiti, amati, lacerati. Non cambierei per niente al mondo la vita che mia madre aveva con mio padre. Per una bambina in età adulta, questa natura passionale diventa un punto di forza. Ma all’epoca pensavo tra me e me che mi sarebbe piaciuto avere una madre un po’ più normale. Non ero sicura di arrivare al suo livello.

C’è un altro momento che l’ha particolarmente emozionata?
Sì, quando siamo tutt’e due sul lettone, mentre la fotografo. E un momento molto dolce. C’era dentro il ricordo di una foto che mi aveva scattato mia sorella Kate. Nello stesso tempo, abbiamo cominciato a parlare di sonno e di sonniferi. Ho sentito la magia di una vera complicità e, da parte mia, di una comprensione nuova. Se riguardo la sequenza, ritrovo mia madre bellissima. C’è anche un altro momento, sulla spiaggia, in cui esprimo pensieri che non avrei mai osato dirle direttamente. Ho registrato un testo e ne ho fatto la colonna sonora di quando la si vede camminare: « Vorrei essere come te. Aver fiducia nella vita. Priva di diffidenza. Credere nell’essere umano e essere curiosa di tutto. Avrei bisogno che tu m’insegnassi a vivere. Tu sei per me un modello di forza vitale». È, in definitiva, una bella dichiarazione d’amore. Ne è rimasta commossa.