Cultura

Charlotte Corday, nel cuore del processo rivoluzionario

Charlotte Corday, nel cuore del processo rivoluzionario

NARRAZIONI Il romanzo di Francesco Zarzana ne racconta la vita. E sullo sfondo la morte di Marat

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 11 gennaio 2022

La storia candida delle figure a interpretare la dialettica politica, sociale e umana che gli eventi avviano sull’orizzonte delle esistenze. La vita di Charlotte Corday, nel romanzo di Francesco Zarzana, Charlotte per i tipi di Progettarte edizioni (pp. 136, euro 16), incarna il quesito eterno sul nesso tra violenza e rivoluzione. Il racconto è a tratti lirico, qualche volta assomiglia al sussurro di un monologo, altre ripercorre la testualità storiografica e si snoda attorno all’ideazione e all’esecuzione dell’assassinio di Jean-Paul Marat, l’estremista «amico del popolo» che, per la giovane di Caen, era solo il fautore del terrore in cui era precipitata la rivoluzione francese. Sono tante e ampie le vie della riflessione che la vicenda indaga.

A PARTIRE da quelle scivolose e senza fine sulle quale trasciniamo i nostri dubbi e le nostre irrisolutezze, tutte giocate attorno a quale sia la misura adatta a fare di una insurrezione qualcosa di vitale, a farne materia di trasformazione del reale, prima che la violenza la inghiotta nell’insensatezza. E ancora: perché l’uomo rivoluzionario che osa alzarsi in volo, precipita, quasi sempre, sul terreno sconnesso della ferocia? A queste domande Charlotte Corday dà la più paradossale delle risposte: uccide Marat, reo di aver esteso la politica della ghigliottina nelle lande dell’efferatezza, arrivando a far fuori l’opposizione girondina e negando al paese la pace di cui necessitava dopo l’irruzione del 1789.

«Noi lavoriamo per la nostra disfatta con più zelo ed energia di quanto ne abbiamo dedicata a conquistare la libertà», riflette Charlotte, la cui determinazione pure ci interroga sul carattere ossessionato che devono avere certe riflessioni per diventare gesto attivo e drammatico. Il libro rende bene questo aspetto, questo lucido organizzare la vita attorno a un unico progetto, questo trarre da tutto quello che le capita, dalle letture di Plutarco ai fatti di cronaca, l’energia da dedicare al tirannicidio di Marat. Le parole, che la ragazza lasciò durante il processo che la condusse al patibolo il 17 luglio 1793, sono complesse, fendono i pensieri lungo traiettorie scomode, eppure sono ingenue e adolescenziali: uccidere un uomo per porre fine al terrore è una soluzione così inappropriata da far sfuggire il senso del gesto stesso. Esso resiste solo nelle trame che la storia inventa per incarnare le scelte, per mostrarci gli epiloghi, per rendere evidenti i nessi e gli errori, se solo fosse pacifico il desiderio dell’uomo di evolvere dai propri dolori.

PER UN PARADIGMATICO paradosso che il libro regala, le parole più umane le pronuncia il boia di Charlotte, che, come tutte le figure che agiscono nel tentativo di rispondere a un ideale di pacificazione, persino se rincorso con strumenti inidonei, lasciano dietro di sé una scia di maldestra dignità. E non ci permettono di rimuovere la lezione più scottante. Dentro una rivoluzione che ha avuto il merito enorme di svelare l’insopportabilità di ogni ingiustizia sociale, quello di porre l’aggettivo «universale» al sostantivo «diritto», anche dentro un evento insorgente e luminoso, si celano le tracce dei carnefici, la ferocia delle esecuzioni, l’insensatezza della vendetta.

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