Quasi tutti i batteristi scandiscono il tempo sul charleston, ma sulla seconda e la quarta battuta, e cioè sul backbeat, componente fondamentale del rock’n’roll. Charlie, anziché battere il colpo, solleva il piatto superiore. Finge di suonare e si ritrae. Affida tutto il suono al rullante invece di lasciare un’interferenza in sottofondo. A guardarlo puoi rischiare un’aritmia cardiaca. In quelle due battute si concede un altro gesto del tutto inutile, e in questo modo tira indietro il tempo, perché è costretto a fare uno sforzo in più. Così, la sensazione di languore generata dalle percussioni di Charlie è in parte dovuta a quel gesto gratuito che ricorre ogni due battute». Forse è un po’ complicato per chi non mastica del tutto faccende di batteria e ritmi ma Keith Richards, che con Charlie Watts ha diviso quasi sessant’anni di dischi, concerti e tanto altro, ha descritto al meglio e con la maggiore precisione possibile il mondo del batterista dei Rolling Stones. E anche il breve necrologio di un affranto Pete Townshend degli Who aggiunge un’ulteriore descrizione che in due righe riassume tutto: «Charlie Watts non era un batterista rock ma un vero batterista jazz. Per questo gli Stones hanno sempre suonato con lo swing della band di Count Basie».

STRANO DESTINO
Strano destino per un aspirante jazzista fare carriera con la rock’n’roll band più famosa al mondo, suonando inizialmente blues e poi «costretto» a condividere le varie direzioni intraprese dalla band, dal beat, al rock, alla psichedelia, a deviazioni quasi hard e glam, senza dimenticare le infatuazioni per reggae e disco music. Ma nel suo tipico stile, Charlie non si è mai scomposto. E ha continuato imperterrito ad accompagnare, apparentemente in sordina e in secondo piano, le scelte artistiche dei Glimmer Twins, interpretando al meglio il classico ruolo del batterista jazz che sostiene incessante e instancabile la band e i suoi leader mentre creano bellezza con gli assoli. Talvolta ai batteristi più virtuosi viene concesso un breve spazio per mettere in mostra le capacità tecniche. Ma a Charlie non è mai interessato. Trovare negli Stones momenti in cui la batteria è in primo piano è raro ma l’aspetto interessante è proprio la capacità, comune a pochi, di lasciare un segno indelebile in brani epocali, attraverso la semplicità e la concretezza. Basti ricordare l’indimenticabile incipit di Honky Tonk Woman che in due secondi di introduzione con il campanaccio rende il brano immediatamente riconoscibile, ancora prima che entrino gli altri strumenti. O la pulsante, proto punk ma allo stesso tempo mutuata dal groove soul della Tamla Motown, Satisfaction.
Charlie Watts nasce musicalmente con il jazz, con Miles Davis, Dexter Gordon, Charlie Parker, nella loro prima esplosione di creatività degli anni Cinquanta. Con lo stesso spirito dei primi Mod inglesi, i cosiddetti Modernisti che abbracciarono il bebop, in contrasto con i Trad, i Tradizionalisti che restavano al classicismo delle orchestre di Count Basie e Duke Ellington, coltiva la passione per questi nuovi suoni rivoluzionari, in cui si osa, in modo inaudito, andare oltre, sperimentare, creare nuovi standard. Di quel mondo ama anche l’estetica, elegante, ricercata, cool. Nel tempo si lascerà talvolta andare, seguendo i compagni, tra capelli lunghi, pantaloni a zampa d’elefante, magliette trasandate, ma recupererà velocemente lo stile che lo ha sempre contraddistinto, riabbracciando impeccabili completi, giacche, cravatte, capelli curati, che si adattavano alla perfezione a quell’espressione facciale ieratica, distaccata, riflessiva che lo accompagnava anche sul palco, davanti magari a mezzo milione di persone. Non a caso è stato ammesso all’International Best Dressed List Hall of Fame di Vanity Fair.

LE PRIME BACCHETTE
Nel 1955, a 14 anni impugna per la prima volta le bacchette, impara velocemente a suonare la batteria e fino al 1962 si diverte con gruppi di jazz, fino a quando, a Londra, il blues e il rhythm and blues, portati dai Mod, fanno breccia nella sua anima musicale, soprattutto quando la Blues Incorporated di Alexis Korner e Cyril Davies, dimostra che non è solo musica per neri. Ai concerti della band al Flamingo, si accalcano tanti giovani ragazzini affamati di nuovi suoni. Gente che si chiama Mick Jagger, Keith Richards, Brian Jones, Jack Bruce, Ginger Baker, Jimmy Page, Robert Plant, Rod Stewart, John Mayall. Ascoltano ma spesso suonano, imparano, si conoscono, si perdono in jam session e poi a casa dell’uno o dell’altro ad ascoltare dischi, scambiando opinioni, crescendo. Soprattutto formando nuove band. E così i Little Boy Blue and The Blue Boys di Jagger, Richards e Jones diventano i Rolling Stones, da un brano di Muddy Waters e debuttano nel luglio del 1962. Ma è solo il 14 gennaio 1963 che al Flamingo suonano il primo concerto con un nuovo batterista, il jazzista Charlie Watts che sostituisce Mick Avory, poco tempo dopo dietro ai tamburi dei Kinks. E qui inizia la lunga storia che un po’ tutti, più o meno, conosciamo, fatta di una prima lunga gavetta, dell’aiuto provvidenziale dei «rivali» John Lennon e Paul McCartney che, già piccole star, scriveranno per loro I Wanna Be Your Man, nel 1963 e con il manager Andrew Loog Oldham che, intuendo dove sta andando la musica, impone a Jagger e Richards di smetterla con le cover blues e rhythm and blues e di incominciare a comporre brani propri. Se i primi tentativi non saranno epocali, ben presto la band infilerà la nota e infinita serie di successi che li ha resi celeberrimi.

INDISPENSABILE
In tutto questo Charlie Watts ha sempre giocato un ruolo artisticamente indispensabile. Altrettanto con il suo naturale accettare lo strapotere mediatico dei due leader che, dopo avere drammaticamente affossato il debole Brian Jones, hanno avuto buon gioco con l’altrettanto remissivo Bill Wyman e i chitarristi sostituti, per occupare per intero la scena con i ben conosciuti eccessi, litigi, costanti primi piani sotto i riflettori. Charlie ha sempre partecipato al circo Rolling Stones in maniera jazzisticamente compassata, «ritirandosi poi nei suoi appartamenti», con la moglie Shirley (sposata nel 1964), la figlia Serafina, la nipote Charlotte. Negli anni ha collezionato batterie e allevato cavalli arabi. Ma ha anche reso importanti servizi alla band, mettendo a frutto le sue reminiscenze da grafico (suo primo lavoro), disegnando le scenografie dei palchi della band in vari tour come quello di Steel Wheels, del Bridges to Babylon Tour, del Bigger Bang Tour e il Tour of Americas del 1975, il primo con Ron Wood, con la particolare forma del palco a fiore di loto. Parallelamente alla carriera con gli Stones ha continuato a suonare jazz con il Charlie Watts Quintet con cui ha pubblicato mezza dozzina di album e con gli A,B,C.D’s of Boogie Woogie. Ha combattutto una dura battaglia contro un cancro alla gola, nel 2004, e precedentemente ha lottato, negli anni Ottanta, contro la dipendenza da alcol e droga, sempre in sordina, senza lasciare trapelare alcunché. Pochi giorni fa aveva annunciato la sua momentanea assenza dai prossimi concerti del gruppo, specificando però che non se ne era andato. Purtroppo la realtà era un’altra. Il jazzista prestato al rock ci ha lasciati. Curiosamente e iconicamente, quasi uno sberleffo programmatico, in uno dei brani simbolo, sin dal titolo, del rock e degli Stones, It’s Only Rock’n’Roll, non è lui a suonare la batteria ma l’ex Small Faces, Faces e Who, Kenney Jones.