L’ultima volta che ci ha fatto ascoltare Song for Che è stato nel giugno 2005. Charlie Haden era a Terni, alla cascata delle Marmore, in concerto con un settetto che suonava jazz sulla base delle canzoni messicane di Jos Sabre Marroquin. Ma il brano in memoria del Comandante lo propose come bis abbandonando il palcoscenico dopo aver rivolto al pubblico un piccolo appello contro tutte le guerre (meno quelle insurrezionali, di popolo, di liberazione, pensiamo).

Si ascoltò allora, ben amplificata, la registrazione più famosa, più esaltante, più commovente, più davvero ribelle di Song for Che: quella del 1969 con la Lberation Music Orchestra.
Musica politica. In senso diretto, c’è chi dice didascalico, ma non era il caso del mirabile mélange della prima Lmo. Free dirompente intrecciato con canzoni della guerra civile spagnola e con la marcia di Eisler per il Fronte Popolare. Una band di tutte stelle (Don Cherry, Gato Barbieri, Dewey Redman, Roswell Rudd, Paul Motian, Andrew Cyrille tra gli altri) messa in piedi da lui, Haden, e da Carla Bley. Ma il disco Impulse che uscì era firmato Charlie Haden.

Una firma non casuale. Haden aveva la «fissa» della politica di sinistra. Diritti civili, contro il razzismo, l’imperialismo, il colonialismo. Splendida mania. Solo in rare occasioni l’ha messa in musica, con progetti specifici, con materiali quasi sempre presi dal patrimonio folk e dalle canzoni di lotta: della guerra civile spagnola, della guerra civile in El Salvador, del Cile dopo Allende. Sono le occasioni di Liberation Music Orchestra, la prima, e di quando si è ripresentata su disco, con quel nome o senza, in The ballad of the Fallen (1982), Dream Keeper (1990), Non in Our Name (2005). Non è da fissati e maniaci della musicologia osservare che la prima Lmo resta ineguagliata.

13colemantumblr_mdoystEdll1r3sdivo1_1280

La materia della prima Liberation Music Orchestra è preziosa – aspra e lucida, caotica e incisiva, caldissima sempre – per via di una parola sentita profondamente: liberation. Analisi delle strutture sonore, degli itinerari sonori, e analisi delle motivazioni politiche rivoluzionarie in quel caso coincidono o si confondono. Un simile risultato Haden con questo genere di impresa non l’ha più ottenuto. Gli altri dischi e gli altri concerti targati Lmo sono stati apprezzabilissimi, sicuramente meglio levigati, ma col sapore di remake. Ben fatto, non c’è dubbio.

Haden avrebbe compiuto 77 anni il 6 agosto. È morto l’11 luglio scorso a Los Angeles dopo una lunga malattia. La sua salute era stata minata negli ultimi tempi dal ritorno di sintomi della forma lieve di poliomelite che l’aveva colpito quando aveva 14 anni. Bandleader, direttore engagé (con tocco terzomondista) di piccole orchestre? Ma no, anche se questa sua attività e questo suo impegno politico caratterizzano la sua immagine. E resteranno. Solista di contrabbasso, anzitutto. Gli intenditori, spesso fasulli, di jazz non lo mettono ai primi posti tra i virtuosi dello strumento. In effetti non era un virtuoso.

Nella storica registrazione di Free Jazz (1961) diretta da Ornette Coleman, il doppio quartetto che è in scena vede misurarsi da una parte il contrabbasso di Scott LaFaro e dall’altra il contrabbasso di Charlie Haden. Il fraseggio fitto/sciolto/scattante dell’uno e il fraseggio arpeggiante/denso dell’altro. Due tipi di approccio che si conoscono da lavori fatti da entrambi in altri contesti. In quella concitata stesura del «manifesto» della new thing jazzistica i rispettivi idiomi tendono ad amalgamarsi, i due vasi sono quanto mai comunicanti. Chi vince? Nessuno dei due, è chiaro. L’efficacia di Haden, il non virtuoso, in quella difficile prova, nell’interloquire, come tutti, in un dialogo a otto voci in cui consiste quest’opera audacissima, non ad accompagnarlo, come sarebbe compito dei bassisti e dei drummer tradizionali, è esemplare ed eccitante.

Haden ha iniziato a farsi conoscere ed è subito entrato nell’olimpo del jazz proprio con Ornette Coleman. Col quartetto – Coleman al sax alto, Don Cherry alla pocket trumpet, Billy Higgins o Ed Blackwell alla batteria – che faceva free jazz alla fine degli anni ’50 già prima che fosse battezzato con un titolo il «genere» che da allora ha cambiato il senso del jazz. Che lo ha reso una musica definitivamente aperta.

http://youtu.be/UKJpJj4aLL8

Le cicliche restaurazioni, le standardizzazioni, le immersioni in calderoni festivalieri non potranno far più retrocedere questa musica. Da quando il jazz ha potuto essere free il suo statuto è la differenza ricercata degli stili e la complessità delle trame (complessità uguale ricchezza di invenzione, chi pensa alle pesantezze penitenziali è fuori strada). Haden in quel quartetto, dall’introduzione di Lonely Woman (nell’album The Shape of Jazz to Come, 1959) in avanti ha fatto sentire il suo modo «chitarristico», tipo chitarra flamenca, di suonare il contrabbasso (di dialogare con altri e di improvvisare in solo). Procedimento per arpeggi, sonorità profonda, accenti solenni. Ma perché non pensare anche al soul, al gospel, quando si ascolta il colore scuro del suo suono?

Lo stesso che ha sfoggiato durante il lungo sodalizio con Keith Jarrett, dal 1967 al 1979. Si ascolti la seconda agitata parte della suite di Jarrett in quartetto intitolata Eyes of the Heart. Le stregate accorate evoluzioni, forse mélo, del pianista trovano il quel suono, in quella cavata di Haden, il giusto controcanto e il giusto significato.