Charles Manson, che quando nacque il 12 novembre 1934 era stato battezzato Charles Midder Maddox e che è morto a 83 anni dopo aver passato in carcere gli ultimi 48, non è stato solo un feroce assassino e un serial killer a modo suo anomalo. È stato la rockstar del male, e in quel ruolo si è cullato sia nei decenni di galera sia in quel breve biennio tra una detenzione e l’altra, tra il 1967 e il 1969, nel quale insanguinò la California senza mai ammazzare nessuno con le proprie mani.

L’aura maligna ma anche carismatica che lo circonda da sempre e che lo ha reso una specie di demoniaco principe tra i massacratori si deve a questo più che al numero delle vittime o alla ferocia delle esecuzioni. Manson è stato il grande manipolatore, il guru che riusciva a infondere nella sua Family, composta soprattutto da ragazzine giovanissime, fedeltà assoluta e obbedienza totale, quello che ordinava e a volte supervisionava omicidi e stragi senza mai sporcarsi direttamente le mani.

La notte tra il 9 e il 10 novembre 1969, quando Tex Watson, Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian, che sarebbe diventata poi la supertestimone dell’accusa, uccisero Sharon Tate, attrice tanto brava quanto bella, moglie di Roman Polanski incinta di otto mesi e mezzo, con i suoi quattro ospiti nella villa di Polanski a Bel Air, Los Angeles, Manson non c’era, anche se aveva deciso e ordinato la strage. Non fu soddisfatto dal risultato. Troppo panico tra le vittime, troppo chiasso, poco chiaro il messaggio, quel «Pig» scritto col sangue di Sharon sulla porta che avrebbe dovuto innescare la guerra razziale negli states. La notte seguente, quando gli stessi quattro giovanissimi discepoli più altri due, Leslie Van Houten e Steve “Clem” Grogan, ammazzarono in un sobborgo di Los Angeles i coniugi La Bianca, il maestro li accompagnò di persona. Legò le vittime, allestì la scena, diede indicazioni precise su cosa dovesse essere scritto, ma se la squagliò prima che la mattanza cominciasse.

Il funesto messaggio, è risaputo, gli era stato indicato dal White Album dei Beatles. La sempre citata Helter Skelter era in realtà solo una parte della cupa profezia. Prestò il nome al grande e sanguinoso sommovimento che Manson aveva il compito di fomentare dando fuoco con le sue stragi alla miccia: la grande guerra tra bianchi e neri alla fine della quale lui e i suoi apostoli avrebbero ereditato l’America. Ma in ogni canzone di quell’album c’erano una strofa, un passaggio, una paroletta che il sanguinario profeta interpretava come messaggio rivolto a lui.

Sharon Tate e i suoi ospiti e poi i La Bianca non furono le sole vittime di Manson. Altre ce n’erano state prima e ce ne sarebbero state ancora, anche quando il guru era dietro le sbarre da anni. Nel settembre 1975 Lynette «Squeaky» Fromme, l’adolescente che Manson aveva offerto come giocattolo sessuale all’80enne proprietario dello Spahn Ranch in cambio dell’ospitalità gratuita per tutta la tribù, fu arrestata mentre si preparava a uccidere il presidente Gerald Ford.

A leggerne la biografia, Charles Manson sembra predestinato a una vita sbagliata sin dalla culla: figlio di una 16enne, rifiutato dalla madre che una volta aveva cercato di venderlo a una cameriera senza figli per il modico prezzo di una birra, senza padre, cresciuto tra un piccolo crimine e l’altro, quando uscì per l’ultima volta di galera prima delle stragi, nel ’67, aveva già passato metà della vita in carcere. Ci si era tanto abituato che chiese di restarci, la sentiva come casa.

Ma non è questo ad aver fatto di Manson un caso unico nella casistica feroce dei serial killer. Per molti versi era l’opposto dei massacratori che popolano le cronache criminologiche. A differenza di Gary Ridgway, che sembrava tutt’al più un tantinello strano prima che confessasse 71 omicidi, o di Ted Bundy, il bel ragazzo che piaceva alle donne e ne aveva ammazzate una trentina, Manson non cercava di apparire normale. Non era uno dei tanti «assassini della porta accanto», quelli che raggelano il sangue proprio per la loro capacità di nascondersi dietro un grigio anonimato. Spiritato, allucinato, profetico e carismatico sembrava, e a modo suo effettivamente era, un prodotto della controcultura californiana dei sixties.

Le ragazzine scappate di casa che lo circondavano, l’uso e abuso di droghe allucinogene, il sesso sfrenato che il piccolo Manson aveva trasformato in strumento di dominio e controllo («Sono il re della scopata», dichiarò al processo e le adepte, tutte marchiate con la X della setta, si vantavano della loro dipendenza sessuale dal maestro), il rock, che Charlie non solo ascoltava ma suonava anche, con canzoni che erano piaciute a Dennis Wilson dei Beach Boys tanto da inciderne una, persino il pullman con cui la Family aveva battuto la West Coast prima di trasferirsi nello Spahn Ranch, quasi un gemello diabolico di quello con cui i Pranksters di Ken Kesey avevano inaugurato la stagione hippie: la Manson Family era in tutto identica alle tante comuni che proliferavano allora ovunque. Charles, razzista e assassino, allucinato e manipolatore, era il lato oscuro della controcultura, il Male che poteva celarsi dietro i colori dell’estate dell’amore proprio come i banali serial killer rivelano l’orrore che può nascondersi nelle pieghe di un’esistenza convenzionale. Manson si sentiva e voleva essere una star. Nel più atroce dei modi lo è stato.