Apparentemente non ci sono screziature nelle biografie della famiglia Pollock, né tra i genitori né tra i cinque figli, tra cui vanno contati due artisti: Charles, misconosciuto e appartato fino alla conquista di una fama critica postuma, e Jackson, celeberrimo in vita e in morte; quest’ultima violenta come s’addiceva ai maudit americani degli anni ’50 del Novecento; inventore di uno stile rivoluzionario, corteggiato da miliardarie e galleristi. Tra i due intercorrevano dieci anni di differenza. Charles, nato nel giorno di Natale del 1902, era il primo di tutti i fratelli Pollock; Jackson, essendo nato nel 1912, il 28 di gennaio, il più giovane. Se di questi si conosce in modo ampio ed esaustivo sia la biografia sia la cronologia delle opere; di Charles si conosce poco o nulla tranne la permanenza in Europa, a Parigi, nella parte estrema della sua esistenza, andando a morire nella capitale francese l’8 maggio del 1988. Ciò raccontano i saggi biografici contenuti nel catalogo della prima mostra in Italia, visitabile alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia (fino al 14 settembre prossimo), Charles Pollock. Una retrospettiva, a cura di Philip Rylands e terzo appuntamento di un più ampio omaggio dedicato ai fratelli Pollock, con il restauro di Alchemy (1947) e la ricollocazione a parte, nella casa-museo di Ca’ Venier dei Leoni, del Murale risalente al 1943, opere chiavi di Jackson e dell’arte del XX secolo.

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Chapala, 1956

Dunque la rapida scorsa alle date evidenziano per Charles, a differenza di Jackson, un’esistenza lunghissima che gli ha consentito di non «congelare» la sua pittura ad un solo periodo. Anzi, attraversando, per certi versi e non solo nell’arte, svolte epocali, è andato malgré soi a sbattere contro rivoluzioni artistiche che poco o nulla avevano a che fare con il suo essere. Più meditativo e riflessivo di Jackson, Charles, ammiratissimo peraltro dal fratello, smontò e rimontò «la scatola» pittorica di Thomas Hart Benton,  maestro di entrambi che, insieme a Hopper e pochi altri, fu uno degli alfieri della pittura realista americana degli anni trenta. Un realismo molto differente dalle tradizioni del Vecchio Continente, il più delle volte antimodernista e, allo stesso tempo, anticipatore di tendenze che saranno preda più della fotografia, del cinema e del video che dell’arte.

Ma, fu l’ascesa di Jackson all’olimpo dei grandi del ‘900 a dirottare la pittura di Charles dal figurativo – tra l’altro sobillato da Benton fu affascinato dagli orditi parietali dei murales messicani (doveva, secondo il suo maestro, guardare al Messico come luogo di avanguardia artistica e a Siqueiros; un tardo omaggio al paese centroamericano è dato da un collage dada fuori tempo massimo e non ancora Nouveau réalisme del ’55) – a un’astrazione, di forte impatto espressionistico, quasi brutale e sconfitta nei soggetti, che però «solidarizza» con quella del fratello. In una decina di anni, insomma, i rapporti si sono ribaltati: due tele in mostra risalenti ad anni eroici come i cinquanta, Don Chisciotte e Dark Script, esemplificano alquanto il periodo. Non che non ci fossero influenze reciproche negli anni quaranta; lì però a giocare d’anticipo erano le sublimi intersezioni tra il Picasso postcubista, arrivato negli States grazie alla «navicella» surrealista scampata al nazifascismo e, ancora una volta, le suggestioni bentoniane, addirittura, di un ventennio prima. Questo sguardo rivolto al maestro d’un tempo, quando Benton morì nel 1975 aveva 86 anni, è una costante da non negare sia per Jackson sia, soprattutto, per Charles.

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I due fratelli Pollock

Ma, è l’accidentale dipartita di Jackson che scatena nuovamente in Charles, fermatosi per qualche anno al solo insegnamento, il demone del dipingere e lo farà con impegno e passione tanto che la sua pittura si emancipa e comincia a dialogare, da posizioni laterali con la nuova astrazione europea, mentre l’osservazione ammirata di Barnett Newman e di Mark Rothko non frena le remore che aveva verso la pittura americana: il più delle volte trascinata in posizioni antitetiche alle sue. Infatti, al contrario della maggior parte dei pittori americani, che aspiravano (o era il mercato a farlo per loro), a un gigantismo produttivo e creativo, Charles Pollock restò fedele al suo lavoro solitario che con l’andar del tempo costruiva impalcature intellettuali rarefatte come il magnifico #95 del ’67, che sembra congelare le teorie colorate kandiskjane in un mondo postumo e senza più riserve morali.