Il sottotitolo del film – Come abbiamo imparato a fermare un presidente fuori controllo – ha un’aura strangeloviana. Ma Watergate è tutt’altro che una satira. Dopo il disastro dell’occupazione in Iraq (No End In Sight), quello ambientale (Time to Choose) e l’Oscar per Inside Job, ritratto indelebile ai vertici delle furfanterie finanziarie che portarono alla crisi dei mercati nel 2008, il matematico, politologo, imprenditore, documentarista Charles Ferguson si dedica ad una storia americana con happy ending. Fittissimo (come tutti i suoi film) di ricerca, interviste, dati ma anche di tensione drammatica, Watergate, è un thriller colossale (4 ore e 20 minuti) e un documentario politico di straordinaria affilatezza. Dopo Telluride, è stato recentemente presentato al New York Film Festival.

Alcuni episodi della sua versione televisiva (in onda su History Channel) sono previsti alla festa di Roma. Abbiamo incontrato Charles Ferguson a New York. «Ho sempre voluto fare un film su Watergate. Ero un teen ager allora. Seguivo le audizioni alla TV, assorbendo tutto quello che potevo. Ho letto con avidità i primi libri, incluso ovviamente Tutti gli uomini del presidente. E ho sempre pensato che fosse un soggetto affascinante, che non ha mai ricevuto il trattamento che si meritava, particolarmente al cinema. Un po’ perché ci sono voluti vent’anni per poter consultare alcuni tra i documenti più di rilievo, dopo la morte di Nixon. Un po’ perché è un episodio veramente complicato».

In «Watergate», Donald Trump non viene citato, ma i paralleli con il presente sono straordinari. Quanto l’attualità politica ha dato forma al tuo film, nel corso della lavorazione?

Il presente ha pesato solo all’inizio. Avevo inteso Watergate come un lavoro puramente storico. È su quella base che il documentario è stato finanziato – tra la fine del 2015 e il gennaio 2016. Allora nessuno poteva immaginare che Trump avrebbe ricevuto la nomina repubblicana, meno ancora che sarebbe divenuto presidente. Quando però abbiamo cominciato a girare, qualche mese dopo, si cominciava già a intravedere il rischio di un’eco con il contemporaneo. L’interferenza russa è stato il primo segnale. Da lì è andato tutto in crescendo. A quel punto ho capito che dovevo fare un film diverso da quello che avevo concepito– molto più serio, a scapito della dimensione comica o thriller intrinseche alla materia. Un film che si interrogasse sull’apparato sistemico, governativo: cosa succede quando è necessario rimuovere un presidente dalla sua carica? E quindi un film sulle forze del sistema costituzionale di questo paese, e sulle sue debolezze. Ma «l’attualità» intesa in senso stretto, non ha cambiato nulla. Anzi, ero convinto che stabilire un legame o delle allusioni troppo dirette sarebbe stato un danno. Il mio obbiettivo era fare un film in cui la regia era invisibile. Un racconto strettamente cronologico, lineare. Niente ammicchi, allusioni. Un film in cui parlavano solo i fatti.

Ma è proprio la prospettiva della distanza storica che permette allo spettatore di osservare la democrazia nel suo funzionamento, e in quella chiave riflettere sull’oggi.

Era quello l’obbiettivo: informare il presente, e lo sguardo del pubblico sul presente, ma non inserire il presente nel film.

Come dice spesso Carl Bernstein, nel caso del Watergate il sistema ha funzionato. E oggi?

Temo, come tanti, che questa volta non funzionerà altrettanto bene. Alcune cose molto importanti sono diverse, a partire dalla composizione del Congresso, dalle forze che lo influenzano e che sono in parte responsabili della sua composizione. La faziosità politica è sicuramente un dato. Ma dietro alla faziosità estrema di questo momento c’è il ruolo del denaro nella politica. Per circa 2/3 dei membri del Congresso, oggi Capitol Hill è solo la stazione di transito verso un posto di lobbista pagatissimo. Ovviamente questo pesa sulle scelte. E poi abbiamo una Corte suprema diversa da allora. La Corte giocò un ruolo molto importante nel Watergate; e probabilmente qui sarà lo stesso. Ci sono infine dei punti interrogativi molto seri anche rispetto all’indipendenza di certi rami del governo federale. Mi ha colpito molto, durante il Watergate, quanto parecchi individui si siano comportanti eticamente anche se sottoposti a pressioni fortissime. Non sono sicuro che oggi succederebbe lo stesso.

I media, facendo fronte unito, ebbero un ruolo fondamentale. Anche quello oggi è un panorama diverso.

Assolutamente. E non si tratta solo di «Fox News». In rete c’è di tutto. E quando 15 milioni di persone seguono il delirio irrazionale di gente come Alex Jones è preoccupante.

Perché la scelta di introdurre la ricostruzione drammatica?

Le registrazioni di Nixon hanno un grosso ruolo nel film. Usarle così come sono sarebbe stato possibile ma molto faticoso, soprattutto per il pubblico. Come illustrarle visivamente? E poi la qualità dei nastri è spesso scadente. Senza contare che Nixon e i suoi interlocutori erano incredibilmente sgrammaticati e proni a digressioni improvvise e svariate. La ricostruzione drammatica mi ha permesso di tenere solo i dialoghi che mi servivano. Alcuni hanno obbiettato, ma spero che la controversia si spenga: per me era un modo efficiente di trasmettere dell’informazione. Non volevo che i re enactment fossero giudicati sulla base della recitazione o dei set.

I tuoi documentari sono parlatissimi, pieni di fatti e di dettagli quasi difficili da assimilare completamente. Eppure si vedono come thriller.

Amo i thriller – ne ho appena scritto uno che spero di realizzare presto. Ho letto e visto moltissimo nel genere – classici come Il falcone maltese e Il grande sonno, Casablanca, i film di Melville. Uno dei miei favoriti è Get Carter. Per dare quell’impronta ai documentari lavoro a strettissimo contatto con il mio montatore, a partire dai transcript delle interviste. Per Watergate circa 3,000 pagine. Avevo interviste che duravano anche cinque ore come quella al procuratore speciale Richard Ben-Veniste. Che davanti all’obbiettivo appare un uomo cauto, precisissimo, mentre nella realtà è tutto l’opposto – oltraggioso ed estremamente divertente. Uno dei miei dispiaceri e quello di non essere riuscito a catturare certe sfumature dei personaggi.

Ma il film trasmette una sorta di complicità tra di loro che è molto bella. L’impressione di trovarsi di fronte un po’ a dei «sopravvissuti», accomunati da un’esperienza unica.

I protagonisti del Watergate sono molto legati tra di loro. Al punto che ogni cinque anni organizzano delle riunioni collettive. Molto segrete, a cui si accede solo per invito. La prossima è imminente, e spero di poterci andare.

Sei un regista asciutto, per niente romantico. Ma «Watergate», ha uno slancio quasi epico.

È stato un grande momento nella storia americana.

Cosa ti aspetti succeda a Washington nei prossimi mesi?

Siamo in una situazione estremamente instabile e pericolosa. Non ho lo spirito di un allarmista o di un «survivalist». Ma, da circa un anno a questa parte, molte delle persone che conosco stanno considerando di procurarsi dei passaporti diversi. Nessuno pensa di svegliarsi l’indomani nella Germania nazista, o prevede un colpo di stato imminente; ma c’è una grande preoccupazione. Che condivido. Abbiamo visto succedere cose che dieci anni fa nessuno avrebbe immaginato. E che oggi sembrano normali. Spero che ne usciremo – come negli anni ’60, o nei tardi anni ’30. Ma adesso sembra diverso. È plausibile che i democratici vincano la Camera. E che quindi aprano delle inchieste sul comportamento di Mr. Trump. Credo che da quelle inchieste salterà fuori qualcosa, principalmente rispetto alle sue attività finanziarie. Che parta da Mueller o dai governi di altri stati – in particolare quello di New York- il tentativo di incriminarlo potrebbe portare a una crisi del sistema. Il fatto è che, purtroppo, Trump è solo il sintomo di processi che sono in corso da anni, e che potrebbero portarci a qualcuno ancora peggio di lui.