Il ritratto della crisi finanziaria in Europa coincide con quello degli abitanti di Charleroi nel lavoro firmato da Giovanni Troilo, vincitore del Sony World Photography Awards (per il suo reportage sulla Ville Noire), esposto fino a fine novembre alla galleria Carlo Virgilio, in via della Lupa a Roma. Qui, nella ex città delle miniere diventata landa da crisi industriale, il futuro è deserto, il passato è lontano, il presente è tristissimo. L’immagine totem è quella di una tipica palazzina di edilizia popolare, abitata dai turnisti delle fabbriche collegate all’indotto di Marcinelle, drammaticamente nota per essere diventata, a causa di uno scoppio nel sottosuolo, la tomba dei corpi invisibili addetti ad estrarre gli ori neri del novecento. Il tetto è sovrastato dal braccio di alluminio che alimentava l’altoforno schiacciando, col suo ineluttabile peso, le vite degli operai, conglobati, a partire dai corpi stretti tra le mura di casa, nella produzione (cos’è la biopolitica se non la consapevolezza di questa immagine?).

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Pur essendo posta nel centro dell’Europa, Charleroi ha il caratteristico orizzonte di un meridione abbandonato, senza nemmeno il conforto antropologico di una vita mediterranea. Al contempo, questo centro, è ricordo di una emigrazione feroce, quella che trasformò i contadini del sud Italia in operai belgi, in cui le comunità si dissolsero per diventare vite separate in lingue diverse. Tutti questi flussi hanno fatto di Charleroi un luogo d’indagine per Troilo, che sempre di più sta concentrando il suo lavoro nel guardare il declino di un occidente stritolato dallo sciacallaggio finanziario, che si è mangiato tutto, anche il sogno di una Europa solidale. «È il racconto di un’apocalisse –  spiega il fotografo – la narrazione di un saccheggio delle vite che mette in crisi lo sguardo. Uno smantellamento del welfare che si è portato dietro uno smantellamento dei desideri».

Com’è nato e come si è sviluppato questo lavoro su Charleroi?
La sua origine è banale. La mia famiglia si trasferì lì, alla fine degli anni Cinquanta. Mio nonno lavorava per la catena degli approvvigionamenti. All’inizio, ci andò da solo, poi lo raggiunse la moglie, nacquero i figli. Solo mia madre è ritornata in Italia e la mia infanzia è stata segnata dalle continue notizie che arrivavano da Charleroi. Erano notizie che registravano il senso di un declino crescente. Si contrapponevano alla storia di una famiglia che si era sradicata per inseguire il sogno di un miglioramento, che si è estinto sotto i loro occhi anno dopo anno. Quando ci andavo, Charleroi mi appariva come una serie di cerchi concentrici, una periferia elevata a sistema, dove tutto era assorbito dalla mancanza del lavoro dopo la chiusura di moltissime industrie. La disoccupazione si trasformava in anestesia, ottundimento.

Fotografare per denunciare, dunque?
Ho sempre avuto l’impressione che con la fotografia fosse più semplice, per me, penetrare la realtà. L’atto di fotografare l’ho sempre praticato  come fosse una  forma di apprendimento del mondo, la  creazione di un’opportunità per una maggiore comprensione. Ma è una comprensione soggettiva. Io dichiaro sempre la mia soggettività: pretendere di raccontare la verità è una operazione falsa e pretenziosa. D’altronde, è un discorso sottile quello che sviluppa la domanda. Diciamo che non è neutro il fine, che lo strumento con il quale si offre una narrazione non dà certezze sulla onestà di quella narrazione. Ogni singola immagine comporta una serie incredibili di scelte: «Cosa rileva il mio occhio?, ad esempio, è una di queste.
In relazione a Charleroi posso affermare che a rendere  indispensabile la mia indagine è stata proprio la rimozione collettiva di queste realtà. Charleroi è la trincea abbandonata, abitata dagli sconfitti, lasciata dalle industrie. È il regno dell’invisibile. È questa oscena invisibilità che io ho voluto raccontare, violandone la non narrabilità. Siamo di fronte alla stessa operazione che viene fatta a proposito del progetto europeo: è difficilissimo sostenere che in relazione a quel sogno c’è stato invece un tradimento.

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Quello che viene ritratto è qualcosa che ricorda uno scenario da fine del mondo. Qual è la passione prevalente a Charleroi?
È una passione grigio scuro, denso, un grigio che inghiotte tutto. È angoscia io credo, la sensazione che quella assenza di prospettive possa finire per mangiarti, letteralmente. Per addormentarti come in un coma, per eliminare la stessa immaginazione di una vita diversa. In un certo senso questo è un lavoro sulla guerra. Sugli effetti della guerra. La guerra che ogni giorno viene condotta contro i poveri, i migranti, contro tutti i marginalizzati. È un progetto che non finisce a Charleroi. Voglio continuare a raccontare che cosa le politiche finanziarie hanno fatto a questo continente, come ne hanno malmesso il volto.
Come accade con i reportage dai vari fronti, anche qui va indagata la frattura tra la realtà e la sua rappresentazione. Si pensi alla Grecia, all’immagine che si è cercata di imporre:  i greci se la sono cercata, sono dei fannulloni. È una narrazione che innesta il processo di colpevolizzazione su cui si basa l’idea stessa del debito, che è la colonna portante di questa impostazione economica. Il mio lavoro vuole incunearsi qui. Vuole non lasciare spazio a queste ricostruzioni. E bisogna farlo guardando  il mondo.

 

 

SCHEDA

Qualcuno ricorderà che questo reportage sul “Cuore nero d’Europa” è stato al centro di accese polemiche in merito alla veridicità o artificio della fotografia. Troilo, infatti, aveva vinto anche il prestigioso concorso World Press Photo nella categoria «Contemporany Issue — stories», con quella sua serie di dieci immagini in cui ritrae la città a sud di Bruxelles descrivendola come un luogo «che ha sperimentato il crollo dell’industria, l’alto tasso di disoccupazione, immigrazione e una recrudescenza di microcriminalità». Ma Paul Magnette, il sindaco di Charleroi, si era imbufalito e aveva denunciato il fotografo, chiedendo il ritiro immediato del premio, definendo quegli scatti «una grave distorsione della realtà che danneggia la città e i suoi abitanti, nonché la professione di fotoreporter». L’organizzazione del premio, dopo aver accolto la rimostranza e aver condotto alcune indagini, aveva sostenuto il lavoro Troilo, ma in un secondo momento era giunta al ritiro del premio. La foto della discordia rappresentava una coppia in una macchina mentre faceva sesso e il protagonista era il cugino del fotografo che gli aveva permesso di riprendere la scena. E Troilo lo aveva fatto, illuminando la scena con un flash a distanza. Poi, il concorso si era accanito su un’altra foto: quella del banchetto di un artista con le modelle nude che era stata scattata non a Charleroi ma a Molenbeek. Alla fine, il World Press Photo  ha optato per la cancellazione del premio.