Le frontiere delle immagini
Sono nata negli anni Cinquanta, nel ’68 avevo diciotto anni, la nostra generazione è cresciuta in un continuo cambiamento. Ho girato Jeanne Dielman a ventiquattro anni, quando arrivavo mi guardavano e quasi non ci credevano che fossi io la regista, una ragazzina …
Nel tempo, in un certo senso, mi sono battuta contro questo film, volevo uscirne, non volevo che mi condannassero a fare sempre la stessa cosa. Così ho sperimentato molto altro, diverse forme narrative e cinematografiche. Anche se non faccio differenze tra documentario e finzione, non ci sono delle vere frontiere tra queste espressioni cinematografiche, penso anzi che si tratti di una falsa distinzione (…). Una forma di ricerca multimediale è per me quasi una necessità. Ho la fortuna di lavorare con una gallerista bravissima come Marianne Goodman, quella dell’arte è una dimensione eccitante, non c’è la tensione della scrittura, la sceneggiatura, posso creare da sola le immagini, non devo rendere conto di nulla: il lavoro è completamente libero. Forse è un mercato più chiuso rispetto al cinema che è ancora democratico, chi compra l’arte sono i grandi capitali. Però non si è costretti a perseguire uno scopo come invece nel cinema, non c’è lo stress del film che va male, e allora dopo diventa difficile trovare di nuovo dei finanziamenti. Al massimo un’opera d’arte si vende oppure no.
Giovani generazioni
Siamo sempre alla ricerca di nomi nuovi ma è difficile che poi resistano. Non mi rendo bene conto di chi esordisce oggi, vivo in modo molto isolato. A volte se dei piccoli film rimangono in sala più di una settimana riesco a vederli e a scoprire qualcosa di interessante (…). La tecnologia ha aperto molte strade, ma è anche vero che le strutture produttive di riferimento sono sempre meno. Io che non sono un’esordiente prima de La folie Almayer ho cercato per anni di chiudere un progetto senza riuscirci.
L’America
Ci sono diversi motivi che mi portano a tornarci, a cominciare dal fatto che è il simbolo più radicato, almeno a un certo livello di immaginario del concetto di globalizzazione. Sono anche attratta dalla sua natura selvaggia, dalla dimensione arcaica, dal deserto dove si vedono ancora le tracce dell’epica western. È l’idea su cui ho costruito De l’autre cotè. Mi piaceva mescolare questa dimensione agli interni di oggi, ai visi, alla povertà. È strano, erano stridenti e insieme speculari. Il «nord» dove quel «sud» del mondo arriva è a sua volta squallido, non vi è che disperazione, miseria intellettuale, le persone vivono in un modo spaventoso. Eppure non basta a scoraggiare chi arriva «dall’altra parte», che sta molto peggio, è molto più affamato. E la logica vorrebbe che non si arresti o non si uccida come capita lì chi non ha nulla e cerca di sopravvivere.
Le figure femminili
Un film come Jeanne Dielman aveva degli aspetti più legati al movimento femminista anche se non lo definirei un film femminista in senso militante. Mi interessava dare visibilità a una dimensione della donna che non era stata ma mostrata in quel modo, cioè nei suoi gesti quotidiani. Il segno dell’oppressione di questa donna è il suo prostituirsi, per questo uccide l’amante.
Un personaggio come la protagonista de La Captive è radicalmente diverso. È libera, ha un suo spazio che l’altro, l’uomo, vorrebbe soffocare cosa che è impossibile in qualsiasi relazione. Poi forse ci sono delle somiglianze nel modo di scrivere, nello sguardo sulle donne che ho raccontato ma questo è naturale, fa parte della mia poetica. Non si tratta però di una scelta calcolata, il movimento di ogni mio film nasce in modo abbastanza naturale.
L’autobiografia
Credo che sia una cifra inevitabile nel lavoro di ogni artista. Tra i miei film il più esplicitamente autobiografico è l’episodio che ho realizzato per la serie di ArteToutes les garcons e les filles dans leur age dove parlo di me, della mia scoperta del mondo nella Bruxelles in cui sta per scoppiare il Sessantotto. La canzone di Leonard Cohen,Suzanne, che fa da colonna sonora, era la musica della mia adolescenza.