Nel giardino del hotel di lusso lo schermo dà le spalle al Mekong. Un cameriere in livrea si aggira tra i dieci spettatori portando bevande; siamo tutti viaggiatori di passaggio a Luang Prabang, cittadina a nord del Laos, patrimonio Unesco dal 1995. Sulla strada l’affissione invita a non perdere il primo film sul Laos e dai registi di King Kong stasera presentiamo “Chang” (1927). Questo documentario narrativo, candidato alla prima edizione degli Oscar, pare davvero succulento: realizzato con l’aiuto di cinquecento abitanti laotiani della giungla e la gentile partecipazione di quattrocento elefanti, tigri, scimmie, leopardi e orsi. Il film muto, girato nella provincia thailandese di Nan, al confine con il Laos, segue le vicende della famiglia del carpentiere Kru alle prese con la sopravvivenza minacciata dagli attacchi delle belve feroci.

Chang” è uno dei primi documentari sulla vita nella giungla nel Sud est asiatico; gli autori Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack impiegano una settimana per raggiungere il villaggio e vi restano per diciotto mesi, girando dal “vero” le situazioni più pericolose, con una camera nascosta a focus fisso (e in parte ricostruendo alcune scene, inevitabilmente, in secondi e terzi momenti). Con questo lavoro gli ex avventurieri e futuri padri di King Kong da etnografi approdano al “fiction-making”. Nel 1922 avevano girato in Etiopia un documentario su Haile Selassie e i suoi guerrieri. Nel 1925 con “Grass” i due seguirono per quarantacinque giorni la migrazione di cinquantamila persone della tribù Bakthiari nel nord dell’Iran fino a quando, purtroppo, la pellicola finì.

Le avventure della famiglia di Kru dopo un grande successo scompaiono per poi essere riscoperte non prima degli anni Ottanta, prive della traccia musicale di Hugo Riesenfeld, collaboratore di Murnau. È solo durante i Novanta che “Chang” rispunta, con l’aggiunta di musica thai in sottofondo, mentre l’ultima versione, quella proposta a Luang Prabang, vede la collaborazione dell’ensemble laotiana dell’Associazione Atoc (Théâtre d’Ombres de Champasak).

Si ascoltano tracce musicali ma anche i versi degli animali; le risate soffocate degli attori che, per la prima volta, videro la ferrovia e il mare durante uno spostamento delle riprese dal Laos al sud della Thailandia. Noi spettatori seguiamo con apprensione la cattura della tigre; il cameriere continua ad avere quella timidezza sorniona laotiana anche mentre prende, con discrezione, le ultime ordinazioni. Sembrano sempre sorpresi dal vederti e a malapena cercano di nasconderlo. Dietro di me una ragazza sussurra al suo compagno l’indignazione per la lotta agli elefanti. “Per amor del cielo”, risponde lui, “è un film del 1927!” Vero è che la questione “elefante” è un tema caldo da queste parti: ne sono rimasti ben pochi liberi e selvaggi, gli altri sono in cattività per lo svago dei turisti. Comunque, noi continuiamo a tifare per la morte della belva assassina. Come per ogni autentico film muto che si rispetti.