Se si dovesse stabilire quale scrittore del XX secolo ha influenzato più di ogni altro non solo la letteratura ma l’intera cultura popolare in tutte le sue espressioni, la scelta sarebbe limitata a pochi nomi. In quella rosa scarna di petali figurerebbe senza dubbio Raymond Chandler: con ottime probabilità di risultare il più votato.
L’ex dirigente di una compagnia petrolifera, messo alla porta negli anni della Grande Depressione perché beveva troppo, si dava troppo da fare con le donne ed era affetto da mania depressiva, ha influenzato innumerevoli scrittori e non solo nel noir. Ma l’impatto di Chandler non si è fermato sui confini della carta stampata. Ha segnato il cinema, la moda, la musica. Ha influenzato per decenni l’immaginario in ogni sua modalità espressiva e continua a farlo.

RAYMOND CHANDLER, scomparso 59 anni fa, è uno di quegli innovatori che finiscono per essere apprezzati persino da chi non li conosce, inconsapevolmente, tramite epigoni. Chi legge Michael Chabon e il suo bellissimo Il sindacato dei poliziotti yiddish non è necessariamente consapevole del debito che in quel libro lo scrittore newyorchese del XXI secolo contrae con il maestro hard-boiled del secolo scorso. La legione di spettatori che hanno adorato Blade Runner, e che da quel film hanno copiato lo stile degli anni ’80 magari ignorano che quel film deve a Raymond Chandler, ispiratore nascosto, quanto e più che a Philip Dick, autore del romanzo da cui è tratto il cult-movie.
Tra gli investigatori con o senza distintivo forse solo Maigret può competere con Marlowe quanto a popolarità: del resto Simenon è uno dei pochissimi che, come Chandler, hanno infranto ogni barriera tra letteratura mainstream e di genere. Eppure questo grandissimo scrittore ha iniziato a scrivere tardi e scriveva con difficoltà e sofferenza. Come confessava agli intimi. Aveva provato a fare il giornalista da ragazzo, con corrispondenze dall’Europa. Aveva fatto fiasco e imboccato tutt’altra strada. Senza quel provvidenziale licenziamento probabilmente non avrebbe mai ripreso la penna in mano. Invece nel 1933, a 44 anni, iniziò a scrivere racconti per la famosissima Black Mask.

NEL 1939 pubblicò il primo romanzo della serie Marlowe, Il grande sonno. Ne avrebbe scritti altri sei, più un canovaccio teatrale e cinque sceneggiature, alcune delle quali sono capolavori in sé: La fiamma del peccato per Billy Wilder, dal romanzo di James Cain, La dalia azzurra e Delitto per delitto, dal romanzo di Partricia Highsmith, per Hitchcock. Non era un grande costruttore di trame: nei suoi romanzi il rischio di perdersi è tanto forte che William Faulkner e Howard Hawks, sceneggiatore e regista del capolavoro tratto da Il grande sonno, con Bogart e Laureen Bacall, dovevano continuamente telefonare al papà di Marlowe chiedendo lumi sul confuso intreccio. Non era neppure particolarmente magistrale nella creazione dei personaggi. Marlowe è essenzialmente quello che l’autore voleva che fosse sin dall’inizio: un cavaliere senza macchia e con poca paura, onesto e dunque povero, solitario e sentimentale dietro la scorza tosta, inguaribilmente romantico in un mondo dove l’onestà non è di casa, la corruzione è dietro ogni angolo e quasi tutti sono pronti a fare quasi tutto per i soldi. Con il vantaggio inestimabile su tutti gli altri cacciatori di criminali di una dose a tutt’oggi insuperata di ironia e autoironia.

NESSUN AUTORE DI NOIR, e pochissimi scrittori in generale, hanno curato con tanta meticolosità ogni dialogo, lavorando di fino persino sulle battute apparentemente meno significative. È grazie a quei dialoghi e a quelle battute che Chandler ha reso il suo personaggio una figura chiave nel pantheon della modernità metropolitana del Novecento: Doghouse Reilly, come si definisce lui stesso nella seconda battuta che pronuncia in assoluto, Scalogna Reilly. Un perdente, a modo suo orgoglioso di esserlo ma allo stesso tempo per nulla soddisfatto della sua sorte, in un mondo dove la regola è cercare di vincere a tutti i costi.
Quel che appassionava Chandler non erano i congegni narrativi e non era neppure la gelida analisi della struttura nascosta della società americana nella quale eccelleva Hammett quello che cercava Chandler. Gli interessavano solo le atmosfere, ed era capace di sudare sangue riscrivendo a ripetizione i suoi romanzi per renderle perfette. Evocative e avvolgenti. Definitive. Raymond Chandler non ha descritto la metropoli del XX secolo. La ha inventata. Ha colto per primo il suo torvo incanto, il suo fascino torbido, il romanticismo nascosto dietro il manto di cinismo.
Ha creato le lenti con cui tutti, ancora oggi, guardiamo quel mondo notturno, quelle strade e quei vicoli, quella dimensione ambigua in cui potere e crimine, ricchissimi afflitti dalla noia e sfigati in cerca di occasioni si incontrano, si sfiorano, intrecciano i loro percorsi con conseguenze spesso sanguinose. Il «mondo di mezzo», con oltre mezzo secolo di anticipo sulla definizione azzeccatissima di Massimo Carminati.