Come si rappresenta una città? Il cinema ha cercato di dare una propria risposta in merito con quello che da più parti è stato definito un vero e proprio genere, la city symphony: genere la cui tradizione, tra alti e bassi, è ancora contemporanea. Si può partire da qui per contestualizzare il nuovo cortometraggio di Cristina Picchi, presente quest’anno a Venezia a «Orizzonti». Il lavoro si chiama Champ des Possibles e si presenta come il tentativo personale della filmmaker italiana di filmare – e cioè rappresentare – Montreal, città canadese che, come si sa, è tra le più importanti (il film si può pensare in un ideale dittico, sul profondo Nord del mondo, con il precedente corto della filmmaker, Zima, dedicato alla Siberia). Champ des Possibles è il nome di un community garden situato nel quartiere di Montreal chiamato Mile End, e – volendo – è un titolo che si presta come metafora della visione della medesima città attraverso lo sguardo della Picchi: uno spazio aperto a diverse «possibilità». Nelle sue parole: «In realtà Champ des possibles è sulla piantina e su Google Maps ma non c’è nemmeno un segno che indichi la zona e quindi per farla breve è un luogo se vogliamo semi-sconosciuto di Montreal, esclusi ovviamente i residenti del Mile End.

Quello che mi piaceva è che tale zona esprime uno dei concetti di cui volevo parlare del film, una descrizione dell’ambiente urbano come organismo vivente, fatto di materia ma anche di storie e quindi possibilità che si intrecciano e si plasmano nell’arco di una vita umana. L’ho scelto quindi perché mi piaceva il riferimento geografico e specifico a una zona. Chi è della città la riconosce, chiaro, però ho accuratamente tolto i riferimenti visivi più evidenti e quindi, diciamo, alla fine potrebbe sembrare una qualsiasi città del Nord America». Nel film si possono rilevare due tipi di operazioni interessanti. Sul piano narrativo, la «riduzione» della presenza umana a tracce o se si vuole echi di testimonianze di persone del posto, una polifonia la cui trama è più importante del singolo momento.

Sul piano visivo, l’«attenzione» verso una sorta di dimensione sospesa dentro cui Montreal sembra poter apparire e scomparire, senza soluzione di continuità, come fosse una «città sospesa»: in merito, indicativa e rivelatrice la sequenza dedicata al cantiere urbano (siamo verso la fine), con un bel movimento di camera che sale e scende, seguendo il lavoro delle gru – l’impressione di sospensione è poi amplificata anche dal lavoro sonoro. Alla fine la visione sembra confermare quanto detto dalla stessa Picchi – ridurre Montreal al suo «grado zero» in termini di identità visiva, per far emergere altro – e questo porta a suggerire come l’atto di filmare, a differenza di altri (scrivere, fotografare), sia quello più fenomenologico quando si tratta di dover raccontare un determinato spazio urbano.