Una eredità prima sentita come estranea e ingombrante: sulla mappa colorata un rettangolo di terra nel cuore inaccessibile del Chaco paraguayano, la seconda foresta vergine più grande al mondo. Col tempo però, quei cinquemila ettari ricevuti dal padre, negli anni ‘80 ambasciatore ad Asunción, per Daniele Incalcaterra sono diventati un richiamo ineludibile, una strada di vita e di cinema, che lo ha portato ad addentrarsi nei meandri della storia del Paraguay, tra dinamiche socioeconomiche ormai globali e il grido silente della madre Terra. Con El Impenetrable (2010), girato con Fausta Quattrini – compagna anche di vita – era riuscito dopo mille “donchisciottesche” peripezie tra i ministeri a far dichiarare la terra riserva, scontrandosi on the road con gli interessi del mega proprietario della zona e con le mire di deforestazione delle multinazionali, in cerca di pascoli per produrre carne da esportare. Con Chaco, sempre firmato con Quattrini (suo anche il montaggio) – vincitore del premio per il Miglior Lungometraggio al Festival dei Popoli a Firenze e dal 21 marzo nelle sale – da una “camera con vista sul Paraguay” (l’attico openspace affittato come quartier generale), riflette sulle possibili strategie per difendere la sua riserva “Arcadia”, esempio di resistenza al capitalismo estremo, dalle aggressioni dell’altro proprietario (gran parte delle terre allora sottratte ai nativi fu distribuita illegalmente, anche a più persone nello stesso tempo), e per restituirla ai popoli originari evitando che si verifichino massacri come quello di Curuguaty. (Nel discorso del Papa ripreso ad Asunción, i nefasti effetti del colonialismo e le colpe della Chiesa fin dal 1492). Su tutto la terra. Nel primo documentario, lussureggiante di farfalle madreperlacee, cactus enormi, timelapse del cielo al ritmo tremolante di stelle danzanti. In Chaco solo brevi struggenti epifanie, come tela ingrandita di un ragno, come minuscole formiche. Ultimi bagliori di quello che rischiamo di perdere. Incalcaterra e Quattrini, pensando al figlio nato al tempo di El Impenetrable, contemplano “la nostra responsabilità per la natura”. Chaco comincia con la cartina del Paese e con il rettangolo che indica i possedimenti acquistati da tuo padre… Nel 1981 mio padre fu inviato in missione ad Asunción dal Ministero degli Esteri come funzionario dell’ambasciata. Rimase lì fino all’85. In quegli anni in Paraguay siamo in piena dittatura Stroessner, la più longeva del Sud America, 35 anni. Durante quel periodo è avvicinato da un uomo d’affari francese che gli propone l’acquisto di alcune terre nel Chaco, a suo parere ottime per produrre jojoba. Il problema era che erano terre dello Stato, destinate ai contadini, e che invece furono vendute a persone del governo, a militari, ad amici della dittatura e a stranieri. Mio padre comprò cinquemila ettari e li mise a nome dei figli.La tua reazione? Quanti anni avevi all’epoca? Avevo trent’anni. É stato il momento in cui più mi sono allontanato da lui. Gli dissi: come fai a comprare una terra in un posto che non è neanche il tuo Paese e senza averci mai messo piede? In seguito, alla sua morte, nel ‘93, con Fausta abbiamo fatto un viaggio per capire dove fossero queste terre, ma non siamo riusciti a trovarle. Allora era ancora più difficile penetrare nel Chaco. Poi, dopo aver realizzato in Patagonia il film La Nación Mapuche, ci siamo resi conto che il problema cruciale di questi popoli originari è il bisogno della terra e ci è venuta l’idea di restituire i cinquemila ettari ai nativi, così è nato El Impenetrable. Che luogo hai scoperto in questo tuo primo incontro col Chaco?Una zona inospitale e dura, per la mancanza d’acqua e per le alte temperature. All’epoca della conquista gli spagnoli volevano tracciare una via per il trasporto di merci dalla Bolivia all’Argentina, tagliando dal Paraguay e senza passare per lo stretto di Magellano, ma non ci sono riusciti e così l’hanno chiamata “el impenetrable”. Nel film c’è un legame forte tra Paraguay e Italia, enfatizzato anche dai collegamenti telefonici in split screen: come quando in sogno scopriamo che due luoghi lontanissimi sono confinanti… All’epoca di Stroessner da quelle parti potevi incrociare Gelli, o gli estremisti ricercati dall’Italia per la strage di Bologna o di piazza Fontana. Oppure evasori fiscali. Il peggio nel nostro Paese a quei tempi lo potevi trovare lì o in Bolivia o in Argentina. Vedi similitudini tra i due Paesi?Sono situazioni molto diverse. In Paraguay il rapporto tra terre e popolazioni è il più sfavorevole al mondo. D’altra parte, il Paese è il quarto produttore di soia transgenica, il sesto di carne. Con un territorio grande all’incirca come la Spagna, una popolazione di sette milioni di abitanti, uno degli acquiferi più importanti del pianeta e una alta produzione agricola, potrebbe essere uno dei Paesi più ricchi ma di fatto è uno dei posti dove l’ingiustizia sociale è più cruda, tra i più arretrati dell’America Latina. Non è l’Italia. La terra ha rappresentato per te oltre a una responsabilità, un dovere di collegarti a una memoria? In Paraguay mi sono legato a quella foresta, quando ho capito come non sia facile. Allora ho cominciato ad amarla e a realizzare che tutti al mondo abbiamo il dovere di preservare il pianeta. Nel tempo mi sono reso conto che mio padre mi ha lasciato una strada di vita e d’arte, e non è poco. Addentrandoci nel film, un nucleo centrale è l’openspace da cui guardi la città. Tra le tante metafore che questa scelta porta con sé, mi sembra emerga quella del luogo di confine, l’ultimo da cui possiamo ancora salvaguardare la Terra …Se parliamo dell’impero, se vuoi capirlo, il miglior modo è installarsi alla frontiera. In questo caso talmente lontana che gli stessi paraguayani non la conoscono. Il Chaco è legato al conflitto con la Bolivia avvenuto negli anni ’30 in cui morirono tantissimi soldati non di pallottole ma di sete. Dunque attiene al rimosso. Oggi buona parte del narcotraffico passa dal Paraguay, da lì sono partiti i fondi per finanziare l’11 settembre. E per quanto riguarda la vista dalle finestre?Non è solo un punto strategico geograficamente – c’è la baia di Asunción, il fiume e, dall’altra sponda, il Chaco – ma anche gli uffici del potere politico ed economico del Paese. Della natura nel film ci sono solo brevi e ravvicinate epifanie. Lì è alla sua massima espressione, inestricabile. Allo stesso tempo, quelle isole di natura che mostriamo sono essenziali per dire, guardate cosa stiamo perdendo. Cruciale in questo è stato lo sguardo di Fausta a cui ho anche affidato la cura del mio personaggio. Anche il suono è in pericolo. Durante il nostro primo viaggio nel ‘93 era assordante. Tanto che alcuni bianchi pare siano impazziti. Invece ora tanti suoni stanno scomparendo. Uno specialista mi ha detto che quando un suono ha tutte le frequenze coperte vuol dire che è intatto, quando invece alcune vengono a mancare, è vita che muore, insetti e uccelli che non ci saranno più. Come avete lavorato alla dimensione sonora del film?Agli ingegneri del suono ho detto: approfittatene, prima che tutto sparisca. Quanto alle musiche, senza che lo sapessimo, Luciano Zampar da bambino aveva vissuto nel Chaco e ne aveva assorbito le atmosfere. Le sue musiche si fondano sui suoni originali o su quelli ricreati in sintonia con l’ambiente. Come la graffiatura del vetro che dà l’idea della pressione sul mio openspace, della solitudine del personaggio. A fine proiezione avete parlato del vostro voler mettere in luce il ruolo dello Stato. Come la presenza della camera ha inciso sui colloqui con le istituzioni?Avevo un vantaggio rispetto a qualunque altro documentarista. Ai loro occhi ero un proprietario, non un cineasta. In più, in questo secondo film, ero anche una persona conosciuta. Delle telecamere se ne fregavano. Quale è il loro atteggiamento verso i nativi?Non gliene importa nulla. Invece già da qualche secolo stanno scomparendo, per ragioni di terra, di produzione e di ricchezza. Qualcosa che deve riguardare tutti i cittadini dei governi cosiddetti democratici. Succede da noi con chi migra …È così, abbiamo deciso di far sparire queste persone, non gli diamo parola, non esistono. Da due anni insegno cinema in Centro Africa, a Bangui, e mi rendo conto delle nostre pesanti responsabilità in questi Paesi. Per questo i ragazzi imparano a produrre il loro sguardo sulle loro terre. Allora il cinema diventa davvero imprescindibile.