«Siamo pronti a manifestare pesantemente davanti a Palazzo Vidoni: anche a occuparlo, se fosse necessario». La segretaria generale della Fp Cgil, Rossana Dettori, appena conclusa l’affollata assemblea del pubblico impiego a Roma – 1000 tra lavoratori e Rsu – spiega al manifesto che il sindacato non è più disponibile a fare sconti al governo: «Sono anni che manifestiamo e adesso c’è anche una sentenza della Corte costituzionale che dice che devono riaprire la contrattazione. Siamo stanchi, vogliamo il contratto. Poi ci preoccupa la riforma della Pa attualmente in discussione, perché cancella la contrattazione e di fatto anche il sindacato: questa è la volta buona che ci mettiamo fissi davanti a Palazzo Vidoni, e se è necessario ci entriamo pure, occupiamo gli uffici».

La ministra Marianna Madia, insomma, è avvisata: e se non vuole che i suoi uffici vengano occupati, dovrà dare un segnale.

Il contratto del pubblico impiego è ormai fermo dalla bellezza di sei anni (dal 2010), e l’attuale governo (come quelli guidati da Berlusconi, Monti e Letta) avrebbe voluto congelarlo ancora, almeno fino all’anno prossimo: ma la settimana scorsa è arrivata, fortunatamente per i lavoratori, la sentenza della Consulta che impone lo sblocco dei contratti. Dal fronte dell’esecutivo, però, fino a oggi non è arrivata nessuna apertura: «Nulla, il silenzio più assoluto – dice la leader dei lavoratori pubblici della Cgil – Probabilmente aspettano di leggere per esteso la sentenza prima di convocarci».

I sindacati, però, non sono preoccupati soltanto dal blocco degli aumenti – che certamente è il problema percepito immediatamente dai lavoratori – ma anche dalla riforma del settore disegnata dal governo: «Temiamo che adesso, al massimo e perché costretti dalla Consulta, si limiteranno giusto a concederci l’aumento tabellare, quello base da contratto nazionale – spiega Dettori – Ma poi, con il nuovo modello che vogliono mettere in atto, bloccheranno completamente la contrattazione integrativa. E alla fine, temo, la contrattazione tout-court: il progetto è di non contrattare più gli aumenti, ma di deciderli unilateralmente per legge. D’altronde, nell’ultimo articolo della “Buona scuola” passata recentemente con la fiducia, si dice esplicitamente che “la legge è superiore al contratto”. Il messaggio è chiaro».

Già ai tempi del ministero Brunetta, con la legge 15, ricorda la Cgil, si era tentato di “legificare” completamente la contrattazione, di fatto cancellando i passaggi con il sindacato. D’altronde, le risorse per gli aumenti, vengono sempre stanziate nella legge di Stabilità, quindi il governo pone già a priori dei paletti ben precisi.

«Con la ministra Madia è arrivata la legge 90 – aggiunge la segretaria Fp Cgil – Si è stabilità la mobilità nei 50 chilometri, e si è tentato di anticipare quello che sarebbe poi arrivato con il Jobs Act, ovvero il demansionamento. Tutto per decreto, per legge, la sfida insomma è quella di neutralizzare il sindacato».

Le organizzazioni di categoria continuano comunque a preparare la loro piattaforma: due giorni fa un’assemblea a Milano (con 1200 Rsu, dicono alla Cgil), ieri quella di Roma, e oggi appuntamento a Bari. Presto le assemblee nei posti di lavoro e in settembre, se non ci saranno novità, forse uno sciopero o una manifestazione.

Intanto il ddl sulla Pubblica amministrazione prosegue più o meno indisturbato il suo iter parlamentare, nonostante gli annunci di presidi, manifestazioni e occupazioni del sindacato: ieri ad esempio è passato un emendamento sui concorsi pubblici. A fare la differenza, a riforma approvata, non sarà più solo il voto di laurea, ma potrà contare anche l’università che rilascia il diploma. Nell’emendamento passato si parla infatti di «superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso» e «possibilità di valutarlo in rapporto ai fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato».