I dipendenti di Almaviva non si arrendono: anche ieri scioperi, cortei e blocchi delle strade, da Palermo a Roma. Ma mentre il maggior gruppo di call center italiano è pronto a licenziare 3 mila persone (la procedura è già stata avviata), la Cgil formula una pesante accusa: capovolgendo una strategia applicata ormai da cinque anni, che prevedeva di non delocalizzare, il gruppo guidato da Marco Tripi starebbe esplorando il terreno in Romania, per aprire lì una nuova sede. Che farebbe da «polmone» di scarico dei costi, in modo da poter tornare competitivi per le commesse italiane.

Lo dice al manifesto Michele Azzola, segretario nazionale della Slc Cgil, che conosce bene l’azienda e i suoi manager, sedendo da tempo ai principali tavoli di trattativa, ma alcuni indizi che confermerebbero la nuova opzione li abbiamo ritrovati anche in recenti dichiarazioni e documenti aziendali.

Almaviva, che già dal 2006 ha assunto a tempo indeterminato grazie alla Circolare Damiano, dopo aver bonificato lo storico “bubbone” di Atesia – call center simbolo della precarietà nei primi anni Duemila – era diventata una sorta di impresa modello per tutte le altre: tra le scelte, quella di non delocalizzare e assumere solo personale italiano per servire commesse italiane. Impegno morale e politico vergato nero su bianco nello statuto aziendale, anno 2011.

Ma nel frattempo altri concorrenti delocalizzavano, i meccanismi del massimo ribasso abbattevano le tariffe, e così per chi nel settore applica i contratti nazionali – «non la sola Almaviva, ma ben l’80% del comparto segue le regole ed è messo nelle sue stesse condizioni», tiene a precisare Azzola – si è avviata la fase del declino e delle costanti perdite nei bilanci, mitigate da un continuo ricorso agli ammortizzatori sociali.

Cinque anni, e Almaviva potrebbe aver abbandonato l’idea di non delocalizzare. L’ipotesi è già stata ventilata più volte, almeno a partire da fine 2014, a tutti i tavoli governativi in cui azienda e sindacati hanno costantemente richiesto lo stop al massimo ribasso, regole per gli appalti e un monitoraggio del rispetto delle norme anti-delocalizzazione in funzione anti-dumping (quelle contenute nell’articolo 24-bis, che impone all’operatore di informare il proprio cliente sul luogo in cui è operata la chiamata: dalla Ue o da extra Ue).

Ebbene, a dicembre 2014 il governo (erano già premier Matteo Renzi e ministra dello Sviluppo Federica Guidi) annuncia «l’avvio immediato dei controlli sul rispetto da parte dei call center di quanto previsto dal richiamato articolo 24-bis». Il presidente di Almaviva Marco Tripi risponde, come si legge in un comunicato del ministero dello Sviluppo (Mise), con «la disponibilità a non procedere ad alcuna delocalizzazione (che investirebbe qualcosa come tremila addetti) in attesa dell’esito delle verifiche promosse dal Mise». Un anno e mezzo fa, insomma, compaiono già i tremila lavoratori a rischio, e non si esclude più l’ipotesi di ricorrere a delocalizzazioni: a patto però che il Mise porti avanti i controlli e faccia applicare le regole, così come si è impegnato.

I tremila a rischio sono diventati oggi tremila licenziandi. Nella procedura avviata ufficialmente lunedì scorso e inviata a sindacati, governo e istituzioni locali, tra le «misure del progetto di riorganizzazione» elaborate dall’azienda si legge: «Riposizionamento geografico all’interno del territorio della Ue, nel rispetto delle normative vigenti al fine di un futuro recupero di competitività». Un passaggio che può collimare abbastanza con l’accusa formulata dalla Slc Cgil e affidata al nostro giornale.

Il momento sarebbe anche quello giusto (almeno dal punto di vista economico), spiega sempre il sindacato, visto che quest’anno ogni licenziamento costa 1500 euro, ma dall’anno prossimo scatta il «gettone» previsto dalla riforma Fornero, e il costo lieviterebbe a 4500 euro. Calcolando che i licenziamenti sono 2988, circa 4,5 milioni di euro invece di 13,5.

Le ispezioni sul 24-bis, spiega la Cgil, «sono state fatte solo nel numero di 125, ma non sono mai scattate le sanzioni». Lacuna di cui si sono sempre lamentate tutte le aziende che rispettano leggi e contratti. La viceministra allo Sviluppo, Teresa Bellanova, ieri ha spiegato che «verrà rafforzata la vigilanza e inasprite le sanzioni: gli strumenti tecnici ci sono». Inoltre, proporrà «alle aziende committenti di premiare nei bandi quelle società che garantiranno anche la territorialità del servizio», ovvero che sceglieranno chi non delocalizza all’estero.

«Il principio è giusto – commenta Azzola – ma i bandi pubblici riguardano poche aziende, come l’Inps o i Comuni. Per le 15 principali del settore, tutte private, serve un Patto dei committenti che dovrebbe essere sollecitato dal governo, magari premiando chi non delocalizza con nuovi sgravi, ad esempio un ulteriore punto in meno di Irap». «Le ispezioni sul 24-bis si facciano seriamente, perché finora non è mai avvenuto – prosegue il sindacalista – Si imponga che tutte le chiamate abbiano impostato a priori, già nel messaggio di accoglienza al cliente, l’opzione di scelta automatica Ue/extra Ue. Infine, si estenda la legge che prevede la cig straordinaria per il commercio, la logistica e aeroporti anche ai call center: darebbe tre anni di ammortizzatori sociali, peraltro pagati dalle stesse aziende, invece degli attuali sei mesi a carico del pubblico».

«In queste condizioni, e aprendo dei tavoli aziendali a breve, prima del 18 aprile – conclude la Cgil – si potrebbe intanto cominciare dal ricollocare alcuni lavoratori a rischio nelle nuove imprese che si sono aggiudicate le commesse di Gepin e Almaviva, applicando la clausola sociale già prevista dalla legge. Mentre per tutti gli altri avremo creato delle condizioni di mercato migliori. Insomma, torniamo al tavolo, invece di parlarci via comunicati».