Sono un esercito di 150 mila persone: 86.467 tempi determinati, 42.409 co.co.co, 17.998 lavoratori socialmente utili che lavorano per il più grande sfruttatore mondiale di lavoro precario: lo Stato italiano. Trattati come cani alla catena che cercano di mordere un contratto che viene e va, molte di queste persone garantiscono la continuità del servizio pubblico nelle scuole, negli ospedali, negli enti locali come lavoratori conto terzi. Per Michele Gentile, coordinatore del Dipartimento del pubblico impiego Cgil, questo altalenante destino rischia di terminare a dicembre quando scadranno i loro contratti. Chi è in «scadenza», come uno yogurt o una mozzarella, ha spesso superato i tre anni di proroga e avrebbe diritto all’assunzione secondo una direttiva europea del 1999 sempre disattesa dallo Stato italiano. Rischia invece di tornare a casa, lasciando scoperti i ruoli nei quali ha operato per una vita.

Per evitare la catastrofe, Cgil ha chiesto al governo una nuova proroga di sei mesi dopo quella prevista nel decreto che ha sospeso la rata dell’Imu. Dopo di che si dovrà pensare a nuovi concorsi – non «stabilizzazioni», quella stagione è ormai archiviata – ai quali i precari parteciperebbero con «riserva». Il costo della proroga sarebbe di 100 milioni di euro. Concorso, e non stabilizzazione. Un dettaglio, si direbbe, ma di sostanza. Diversamente dal 2006-7, quando il centrosinistra di Prodi scelse la via delle stabilizzazioni a tempo indeterminato soprattutto nella scuola e nella ricerca, oggi lo Stato italiano è impegnato nella drastica riduzione del personale nella P.A. Precari compresi. Per la Ragioneria dello Stato solo nella scuola i precari erano 301.075 nel 2011.

L’Aran (l’Agenzia per la rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) ha reso noti da tempo i veri numeri, e il destino, del precariato nel pubblico in Italia. L’8 agosto scorso un nuovo rapporto dell’agenzia ha confermato che la riduzione è iniziata nel 2007 portando gli occupati da 3.650 milioni a 3.350 milioni, vale a dire meno 300 mila unità. Dopo la stretta voluta da Tremonti, il primo esecutore della «troikizzazione» dei bilanci statali, nel biennio 2011-2012 il numero degli statali è diminuito del 3,5%, corrispondente a 120 mila occupati in meno. Il risparmio è stato notevole: nel 2011 la spesa era di 170 miliardi (-1,6% sul 2010). Nel 2012 è calata a 165,36 miliardi (-2,3%).

Queste persone sono state «accompagnate» all’uscita: tra pensionamenti, prepensionamenti, blocco del turn-over che stritola i precari in una gabbia senza uscita. Con l’allungamento dell’età pensionabile imposto dalla riforma Fornero questi ultimi possono dire addio al posto fisso. Il ministro della PA Gianpiero D’Alia caldeggia una spending review che taglierà 108 mila persone, la metà di quella annunciata dal bagno di sangue progettato dal precedente governo. La metà sarà riassorbita con la mobilità, il resto con l’«esodo volontario». Letta e D’Alia intendono affrontare il problema con i sindacati. Ma, a sorpresa, il consiglio dei ministri dell’8 agosto ha approvato la proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, vigente dal 2010. Impiegati e precari resteranno senza aumenti salariali fino al 2015 e l’attuale busta paga sarà mangiata dall’inflazione. Dal 2010 al 2014, calcola la Cgil, perderanno 4100 euro. La decisione ha fatto perdere le staffe ai sindacati confederali, mentre quelli di base hanno indetto uno sciopero generale il 18 ottobre.

E i precari che fine faranno? Una soluzione verrà con il sorgere del sole, forse, un giorno. Di sicuro, invecchieranno visto che già oggi i dipendenti under 35 sono il 10,3%, mentre in Francia sono il 28%. Quasi un dipendente su due è over 50, mentre in Inghilterra è il 30%. Cgil e Cisl chiedono di aprire una trattativa prima della loro scadenza di fine anno. Tutto questo mentre il premier Letta, alla vigilia del meeting di Cl, ha sostenuto che l’Italia sia «un Paese adulto che vuole ricominciare a costruire il futuro dei propri figli. Vogliamo dimostrare all’Europa e al mondo che non c’è più bisogno che ci si dica di fare i compiti a casa».