Come si fa a mobilitare una società arroccata in se stessa e sfinita dalla crisi? Questa è la domanda che percorre il 48° rapporto Censis sulla società italiana presentato ieri al Cnel a Roma. I dati sulla recessione analizzati nell’ultimo anno confermano il crollo dei consumi delle famiglie: -8% del Pil dal 2008, Questo ha comportato un cambiamento delle abitudini, soprattutto del ceto medio che continua ad essere l’ago della bilancia di tutte le politiche sociali. Si sta scoprendo una vita «a consumo zero» con la riduzione di pranzi e cene fuori casa (62%), cinema e svago (58%). Si riducono gli spostamenti in auto per risparmiare la benzina e si cambiano le abitudini alimentari. In un paese dove crescono drammaticamente le diseguaglianze economiche, e la redistribuzione delle risorse viene annientata dalle politiche dell’austerità, le famiglie risparmiano su tutto.

Per il Censis è questo il senso dell’aumento del risparmio privato, contanti e depositi bancari sono aumentati in termini reali del 4,9% e costituiscono il 30,9% del totale (erano il 27,3% nel 2007). Questa massa monetaria pari a 1.219 miliardi di euro a giugno viene definita come «capitale inagito». Si tratta di un capitale liquido, o «cash», che rappresenta una forma di tutela individuale contro i rischi sistemici di un paese giunto al terzo anno di recessione senza vedere all’orizzonte una svolta. Anzi, la percezione della «vulnerabilità» porta il 60% degli italiani a temere di finire in povertà in qualsiasi momento: «è come se la povertà fosse un virus che può contagiare chiunque» aggiunge il Censis, riferendosi al ceto medio in via di impoverimento o di vera e propria proletarizzazione. Questo «capitale inagito» «è anche il carburante dell’informale, del nero, del sommerso, serve a creare reddito non tassato e per abbattere i costi». Quelli da sostenere nel caso di una malattia improvvisa, oppure per l’istruzione dei figli e ancora per la perdita del lavoro.

Il bonus Irpef da 80 euro, che vedrà la probabile consacrazione nella legge di stabilità, finirà in queste pieghe. Non rilancerà dunque i consumi, come auspica il governo Renzi, ma potenzierà le strategie di immunizzazione approntata dal ceto medio del lavoro dipendente che percepisce tra gli 8 mila e i 26 mila euro annui. Da questa elargizione sono state escluse tutte le forme del lavoro autonomo, il precariato, e i pensionati. Soggetti che restano nel cono d’ombra della politica. Una decisione che sembra avverare una previsione fatta nel 2007 da Sergio Bologna nel libro «Ceti medi senza futuro?» (Derive Approdi).

La crisi ha bloccato anche gli investimenti. Nel rapporto viene descritto il crollo nell’hardware (-28,8%), nelle costruzioni (-26,9%), mezzi di trasporto (-26,1%). Dal 2007, il crollo è stato superiore a 333 miliardi di euro, più di quanto previsto dal bluff del piano Juncker (poco più di 300 milioni, quelli reali sono solo 21). Non vanno meglio gli investimenti diretti esteri: nel 2013 sono stati 12,4 miliardi contro i 72 dell’anno precedente. Gli investimenti che dovrebbero creare nuove imprese e rilanciare l’occupazione, quelli per cui è stato fatto il Jobs Act che cancella l’articolo 18 e eroga tutele a singhiozzo per i neo-assunti, sono crollati del 60%. Considerate le premesse strutturali della crisi non è detto che quest’opera di deregolamentazione raggiunga il risultato auspicato.

C’è poi il «capitale umano dissipato». Così il Censis descrive il secondo effetto della recessione italiana: oltre 3 milioni di disoccupati, 1,8 di inattivi, 3 «disponibili a lavorare». In Italia ci sono «8 milioni di individui non utilizzati» che «aspettano di essere valorizzati e instradati verso un mercato del lavoro per tradurre il loro potenziale in energia lavorativa e produttiva».

La scelta di questa terminologia neoliberista ricavata da Gary Becker – il teorico del «capitale umano» – non è casuale. Il rapporto fa proprio il problema del capitalismo contemporaneo, e il suo punto di vista scisso tra l’euforia finanziaria e la depressione per la catastrofe di quella reale. Il suo problema è far ripartire il processo di accumulazione, quello di valorizzazione della forza-lavoro e l’efficacia dell’azione politica che ha interiorizzato il punto di vista del mercato e distrugge lo Stato, il welfare o i beni comuni.

La politica, subalterna alla cultura neo-liberale, è incapace di cogliere il cuore della contraddizione e continua a rispondere agli input del mercato promuovendo la frammentazione sociale, la distruzione del sistema dei «corpi intermedi» istituzionali, professionali o di categoria, come della rappresentanza democratica o del lavoro. La sua incapacità di fornire una risposta all’altezza della crisi del capitale si riflette nel blocco – variamente descritto nel rapporto – del desiderio. Non circola il denaro e non si consuma. Al soggetto indebitato vengono negate le sorgenti della sua felicità e per questo diventa sempre più riottoso e individualista.

In questo approccio manca una profonda critica del neoliberismo, e dei suoi presupposti antropologici. La domanda iniziale: come si «movimenta» una società in crisi rischia di non trovare una risposta che non sia quella di una politica che coinvolga la società all’interno di un discorso «neo-borghese». Un tentativo che si è rivelato fallimentare negli anni dei governi delle «larghe intese», come del resto attesta la stessa indagine del Censis.

Dalla lettura del rapporto si evince ancora un alto tasso di fiducia nei sindacati, soggetti utili alla vita democratica. Interessante è la descrizione della «terra di mezzo» dove crescono identità lavorative «ibride» tra nuova impresa, lavoro autonomo e precariato. Nel 2013, 3,4 milioni di occupati. Tra i 15-24 anni queste «identità» sono maggioritarie. Si sta consolidando un «quinto stato» che non trova rappresentanza nè tra i sindacati nè nell’impresa e che subisce, più di altri, la violenza della crisi.