Complice il meteo che ha fatto i capricci solo una volta e mezza, il bilancio delle serate in piazza di Locarno è stato valutato come positivo. Dal punto di vista delle presenze. Che in questo festival contano tantissimo, anche perché il biglietto non è proprio regalato, 25 franchi (circa 22 euro) per un solo film che diventano 35 per la doppia programmazione. Così, quando accorrono migliaia di spettatori per Jason Bourne o per la Palma d’oro di Cannes I Daniel Blake, anche il cassiere del festival sorride. Cominciano però a essere meno soddisfacenti i film nel loro insieme. Certo, far combaciare scelte del festival, esigenze della distribuzione (sia svizzera che internazionale), concorrenze lidensi non è lavoro facile. Ma neppure sporco e qualcuno lo deve fare. Jason a parte nessun titolo proveniva dagli Stati Uniti, né delle major né indipendente, presenti invece un manipolo di film orientali e un’esagerazione di film a qualche titolo francesi (ben otto) di cui non se ne sentiva la necessità – e la visione ha confermato quell’impressione.

 
E allora volendo ripescare qualcosa di interessante tra i titoli transalpini si deve puntare su Cessez le feu di Emmanuel Courcol, esordiente ma con solida esperienza di sceneggiatore soprattutto per Philippe Lioret (tra gli altri Welcome e Tutti i nostri desideri). Per il suo debutto come regista Courcol ha puntato su un tema poco praticato: i reduci devastati della prima guerra mondiale. Una tragedia che non ha solo prodotto milioni di morti e di invalidi, ma che ha anche lasciato una scia di smarrimento e di malattie dell’anima. Eppure il pubblico europeo che ha avuto modo di conoscere nel dettaglio la devastazione dei reduci statunitensi dal Vietnam all’Iraq all’Afghanistan, ha potuto vedere poco su quel che è capitato ai nostri nonni e bisnonni.

 
Da questo punto di vista la ricostruzione di alcune tipologie di nevrosi è perfetta (se qualcuno volesse approfondire esiste un agghiacciante documentario di Enrico Verra, Scemi di guerra, 2008). Ecco allora che ci ritroviamo in una famiglia con un figlio ex capitano che dopo la guerra ha cercato nell’Africa coloniale un panorama diverso per rimettersi insieme. Al paese è rimasto invece il fratello che ha deciso di non parlare più in seguito allo shock bellico. Intorno a loro madri dolenti, vedove straziate e donne divorziate che non sempre sono riuscite a capire, mentre l’ospedale dopo anni è ancora pieno di soldati e nelle feste di piazza i reduci ostentano arroganza o timore.

 

 

Molto efficace nella parte francese il film sembra perdere qualche colpo nei momenti africani, limite forse dovuto alla complessità della realizzazione. Rimane però uno delle note più interessanti della piazza dove avrebbe tranquillamente potuto trovare posto come omaggio a Mario Adorf il film di Comencini A cavallo della tigre con Manfredi, Volonté, Moriconi e lo stesso Adorf: irresistibile.