Quando entra in scena in frak argento, cilindro, i guanti neri e il bastone bianco con cui dà il tempo all’orchestra jazz – al Salone Margherita di Napoli, all’Apollo e alla Sala Umberto di Roma, al Trianon e al San Martino di Milano – solo pochi tra gli spettatori, abbagliati dal magnetismo dell’apparizione, conoscono la vita romanzesca di Lydia Johnson, l’origine russa, la precoce vocazione per la danza, l’incontro a diciotto anni con il ballerino inglese che le regala un cognome e una figlia, la futura soubrette Lucy D’Albert, la fuga allo scoppio della rivoluzione, le peregrinazione tra Kiev, Baku, Istanbul, i clamorosi successi parigini all’Olympia e alle Folies-Bergère, la lunga tournée americana. Il ritornello con cui si presenta «Mi chiamo Johnson… Johnson… Johnson» fa subito epoca perché l’asettica enunciazione onomastica vibra in lei di brucianti propositi come una dichiarazione d’amore o di guerra, mentre tra le tante canzoni del suo repertorio internazionale da noi nessuna diventa popolare come il charleston «Lola, cosa impari a scuola?», che è in realtà l’esplosivo «Yes, we have not bananas» lanciato da Joséphine Baker, con banane o senza.

Cosa c’entra Lydia Johnson con Cesare Zavattini? Non c’entra nulla. O quasi. Ma quando nella sua tempestosa carriera, Lydia fa una breve tournée italiana, ad applaudirla ci deve essere stato anche Cesare che qualche anno prima, ancora in calzoni corti, si era fatto bocciare in prima liceo per vedere i grandi protagonista del variété, correndo da un teatro romano all’altro. Non c’è motivo di dubitarne, se è vero che nel suo ultimo inverno milanese prima di trasferirsi a Roma, Zavattini non resiste alla tentazione di andarla a sentire ancora una volta. Ne parla esplicitamente nella lettera aperta a Giulio Benedetti pubblicata su Ecco Settebello, il settimanale umoristico che dirige con Achille Campanile.

Nella rubrica dedicata al varietà che tiene su Tempo dal 14 marzo 1940 al 9 gennaio 1941 si muove con estrema disinvoltura. Si comporta anche qui, come era avvenuto pochi mesi prima nelle recensioni cinematografiche, più da spettatore tra gli spettatori che da critico. Anzi, scrivendo di varietà è ancora più libero perché nel settore non c’è assolutamente una tradizione critica, neppure giornalistica, a cui rifarsi magari per capovolgerne convenzioni e stereotipi. Nella loro scrittura performativa, mercuriale e mobilissima, quasi una stenografia buttata giù al buio rischiarato a tratti dalle luci della ribalta, questi esili colonnini che tendono sempre più all’appunto e al diario sono una sorta di porto franco in cui l’amore per il varietà e l’avanspettacolo gli consente di sfogare estri e umori, consensi e dissensi, continuando a cambiare le carte in tavola e i punti di vista.

Sfilano come in una ideale passerella i comici, da Aldo Fabrizi (violento e intimidatorio nei suoi affollati monologhi) a Renato Rascel (sempre vestito di nero, canta le sue filastrocche come un bambino tardivo e solitario), da Macario (gli occhi spalancati, la bocca a cuore, sempre in sintonia con il suo pubblico, senza mai strafare) a Nino Taranto (la sua napoletanità a corrente alternata, ora plebea ora borghese), da Guido e Giorgio De Rege (il duo inossidabile che gira intorno alle battute come un disco rotto e celebra il compiacimento dell’insulto) a Fanfulla (con le sue giacche verdi, i pantaloni gialli, gli occhi da finto miope, la piega amara della bocca, quasi una smorfia).

Come un impresario attento alle varie componenti dello spettacolo – è uno dei suoi sogni ricorrenti, di cui ha parlato più volte – non trascura le cantanti, i compositori, i parolieri, i direttori d’orchestra, le soubrette, le ballerine, le attrazioni, che gli ispirano fantasiosi ritrattini e perfide battute. Ma i pezzi più vertiginosi sono quelli in cui viene in primo piano il pubblico, come Fine dei dilettanti, dove la Radio, anzi l’Eiar, seleziona centinaia di artisti amatoriali per farli esibire con un numero o una canzone di loro scelta sui palcoscenici del varietà, dal Teatro Jovinelli al Giulio Cesare. Non si contano le imitazioni dei comici più noti, le riproposte dei brani d’opera che suscitano applausi clamorosi ma anche reazioni violente: «Non aveva voluto il microfono, era troppo sicuro della sua voce; sapevo che da anni aspettava un momento così bello. Invece le urla della platea copersero la romanza, egli passeggiava su e giù dondolando la testa e riprendeva la romanza da principio appena sperava nel silenzio. Dalle quinte lo chiamavano dentro, invano. I suoi occhi non vedevano le facce diaboliche, non si accorgeva dei proiettili che arrivavano da ogni parte, era in trincea, non si sarebbe più mosso dal proscenio». Portando la mano al cuore come si usava una volta, altri scelgono di cantare i grandi successi del momento, da Signora illusione di Armando Fragna e Bruno Cherubini a Una zingara m’ha detto di Mario Ruccione.

La mappa del varietà coincide con la scoperta della capitale, dove il luzzarese, memore delle scorribande giovanili, si muove con l’onnivora curiosità dell’esploratore. Cominciando con i teatri, dal Principe allo Jovinelli, dall’Aurora al Palazzo, dal Giulio Cesare al Brancaccio, dalla Sala Umberto al Capranica, dal 4 Fontane al Valle, senza trascurare l’inaugurazione del Reale e una puntata alla Nirvanetta. Via della Vite, tra San Silvestro e via Frattina, all’una di notte è un punto di osservazione privilegiato per gli appassionati che vogliono intravedere per un attimo Nino Taranto, l’attore meno avventuroso del mondo, che con moglie e amici esce dalla Galleria Colonna e taglia per Corso Vittorio. Se giornalisti, scrittori, registi vanno alla Farmacia notturna di piazza San Silvestro, l’unico locale notturno della città, dove Pietro Garinei prepara di persona l’elisir di rabarbaro, al caffè di piazza San Claudio si danno appuntamento gli acrobati, i prestigiatori, le attrazioni che hanno finito i loro numeri prima dell’allegro bengala del gran finale. Scherzi della memoria o segni del destino, le maggiori sorprese gliele danno le vecchie conoscenze che, non ci si crede, sono ancora in attività e si materializzano nei momenti più impensati. Peppino Villani incede solenne in una via del centro, caramella all’occhio e sigaro in bocca. Maria Campi, gli occhi ancora vivacissimi, tra il pubblico di un cinema varietà nel teatrino che aveva ospitato Pirandello. Gabrè in una sala a via dell’Impero, con un brillante sullo sparato e gli occhi da monsignore, canta con voce impostata Vieni con me o bella bimba bruna, il vecchio valzer di Edo Di Lazzaro. Bambi esce dalla trattoria del Grappolo d’oro, prima di infilarsi in via del Gambero e scomparire nella notte.

L’intera rubrica è attraversata dalla polemica aperta, intransigente, faziosa tra il mondo dell’avanspettacolo e il mondo della rivista, che nella ristrutturazione dello spettacolo minore sta cercando di prevalere. Ma nel mondo sgangherato e un po’ guitto dell’avanspettacolo rivive la grande tradizione del varietà di appena ieri, facendone un terreno di sperimentazione e innovazione continua che s’impone nonostante le pigrizie e i limiti delle regie e delle messinscene. Se non riesce a appassionarsi alle grandi riviste di Michele Galdieri, Nuto Navarrini, Maria Donati e Guido Fineschi, che trionfano nei teatri del centro, nelle sale popolari di cinema teatro della periferia riesce a scoprire tutta una serie di attori sconosciuti ai critici. Come Carlo Iantaffi, altissimo, dalle lunghe braccia, che, è sicuro, «al cinema sarà un generico memorabile». O Gustavo Cacini, strabico come Ben Turpin, che canta, grida, balla, suda, «un’altra faccia da pellicola». Confuso tra il pubblico chiassoso, si rende conto di quante cose nuove si potrebbero fare nel varietà: «Io penso a una serie di recite straordinarie: “Come mangia le ostriche il signor F.”. Nessuno ha mai osservato i propri simili, quando mangiano, “per 15 minuti consecutivi”. Li avete osservati con la coda dell’occhio, mai seduti in poltrona e senza il timore d’incontrarvi con lo sguardo della vittima». Varietà o cinema? Si sente profeta: «Un giorno vedremo aprirsi il velario, comparire Ungaretti, declamare «M’illumino d’immenso» indi a brevi passi retrocedere inseguito dall’orchestra con il galoppo finale». Ma questa è televisione!

Nella moviola del tempo – la stessa grazie alla quale riappaiono per un momento Charlot, Buster Keaton, Harold Lloyd, Larry Semon, Harry Langdon, Stan Laurel e Oliver Hardy – rivive il variété protonovecentesco di Leopoldo Fregoli, Ettore, Petrolini, Raffaele Viviani, Gennaro Pasquariello, Elvira Donnarumma, Nicola Maldacea, Alfredo Bambi, Primo Cuttica, Luciano Molinari, Armando Gill, Luciano Manara, Gabrè, altrettante figure proverbiali della stagione affascinante e irripetibile dei primi decenni del secolo scorso, in cui si avvertiva l’inquietudine delle avanguardie. Un mondo – quello del varietà italiano in crisi – a cui sin dalle sue prime affermazioni appartiene anche Totò. La sua irruenza, l’irriducibilità, l’energia incomponibile che contrassegna la sua presenza sul palcoscenico e che affiora in parte anche nel cinema degli inizi, vengono dal varietà. La modernità del grande comico condivide i due vistosi contrassegni di quella promettente stagione: la disgregazione dell’io e lo stravolgimento metalinguistico.

La raccolta si chiude con I pensieri di Totò, lo strepitoso elogio che Za gli dedica su Scenario del settembre ’40, un’intervista a doppio specchio in cui i due continuano a scambiarsi le parti. Si capisce che l’attore dopo tanti avanspettacoli è in crisi, ma Zavattini, il suo più tenace ammiratore, è pronto a traghettarlo nell’infido mondo del cinema. Nello stesso mese su Cinema appare Totò il buono, il celebre soggetto cinematografico firmato da entrambi, di cui si annuncia l’imminente realizzazione, ma che per ora non andrà in porto. Si chiude insomma con un vincitore annunciato che invece, come succede, è uno sconfitto. Sono già cominciate infatti le prove di Quando meno te l’aspetti, la rivista di Michele Galdieri che debutta al Quattro Fontane il 25 dicembre dello stesso 1940. In coppia con Anna Magnani – la commediante di grande temperamento, aggressiva e irresistibile – Totò si trova ancora una volta al centro di un nuovo capitolo del teatro italiano di rivista, nel crocevia in cui si saldano in un organismo unitario la satira e il musical, l’irruenza farsesca e lo sfarzo scenografico, lasciando il segno in più di una generazione di spettatori.

Appendice: la lettera aperta di Zavattini a Giulio Benedetti
Leggo sul tuo giornale un attacco, determinato da una lettera di uno del pubblico, contro il varietà, sezione avanspettacoli, colpevole di adoperare un linguaggio spesso scurrile.È tanto vero che anch’io stavo scrivendo oggi sullo stesso argomento. Pochi amano il varietà come lo amo io.

L’altra sera, caro Benedetti, ho attraversato tutta Milano con la filovia CE per andarmi a sentire una mia non più recentissima passione, Lydia Johnson, in piazzale Lodi, tra la nebbia e i ghiacciuoli: un avanspettacolo corretto e perfino elegante. Ma cinque sere prima al cinema Plinius avevo ascoltato la compagnia Cecchelin: Cecchelin un amabile attore dialettale, un triestino, nella scelta del repertorio un po’ troppo spinto, diciamo così. Fa una commedia in un atto imperniata su un padre con tre figli dove la immoralità tocca il vertice. Cecchelin canta poi una canzone parodia della famosa “Evviva la torre di Pisa” con una strofa finale di una sconcezza non comune. Il pubblico ride, ma Cecchelin può far ridere e divertire pur eliminando i suddetti mezzucci. Più grave: spettacolo Sidet al Manzoni. Bene sino in ultimo, numeri italiani francesi e americani di prima classe, niente di fantastico, ma tutto buono. La maggior parte degli applausi se li prese il quartetto Funaro. E giustamente: malgrado le reminiscenze spadariane, i quattro sono elementi che sarei lieto di vedere nel cinematografo! Ma in cauda venenum: il toscano che fa anche l’imbonitore se ne esce tre minuti prima della fine con un doppio senso così trito e volgare che io non mi sono alzato gridando «cretino» sia per la mia ben nota timidezza sia perché non mi riconosco il diritto di offendere artisti di così evidente merito.
Ancor più grave: nella stessa settimana alla rivista Madama Poesia di Navarrini. Nella scena dei ricoveri antiaerei, dove satireggia Mistinguett, c’è equivoco alle spalle di un vecchio principe russo stupidamente e spaventosamente grossolano osceno e antico. Io non esiterei a dubitare dell’intelligenza di Navarrini se dopo aver letto queste righe non corresse subito ai ripari.

Dobbiamo combattere il varietà e l’avanspettacolo suo figliolo? Evviva l’avanspettacolo, da questo vanno verso il varietà rivoli d’oro, e dal varietà vanno verso il teatro e verso il cinema gli uomini più redditizi. L’avanspettacolo è il regno delle iniziative individuali, dell’estro, dell’invenzione, è il teatro dell’arte e spesso delle privazioni immeritate, spessissimo del misconoscimento: un’altra volta scrissi, mi pare qui sopra, che i direttori dei quotidiani dovrebbero dedicare qualche riga di critica agli avanspettacoli. Non solo sarebbe giusto, ma sarebbe soprattutto un incentivo a migliorare e, finalmente, una ricompensa a tante ambizioni valorose. Vi sono dei «numeri» che meritano un articolo, non cinque righe, le solite cinque righe. Se li lasciate soli e lontani, i poveri avanspettacoli s’inselvaticheranno sempre di più, il metro per misurare se stessi sarà soltanto quello della lunga risata del pubblico che così spesso è al di sotto della sua coscienza. Prendiamo l’esempio dei 3 Bonos: un numero simpatico, acrobazie e umorismo. Si può parlare di loro per tre quarti di colonna, per una colonna: e allora si direbbe, dopo gli elogi abcdef, che in qualche momento rasentano la trivialità senza aggiungere un grammo di più al loro incontestabile successo. Ma nessuno si sarà preso la briga di giudicare i 3 Bonos se non con la citazione: «Molto applauditi i 3 Bonos».

Il libro
Scrittore e cineasta, Cesare Zavattini – nato a Luzzara, Reggio Emilia, il 20 settembre 1902, muore a Roma il 13 ottobre 1989 – è uno dei protagonisti del Novecento. Annunciato da tempo, esce in questi giorni Zavattini, I sogni migliori, a cura di Orio Caldiron, pp. 320, euro 18,00, che raccoglie per la prima volta i testi delle due rubriche, quella delle recensioni cinematografiche e quella del varietà, apparse su Tempo, il settimanale diretto da Alberto Mondadori, dal giugno 1939 al gennaio 1941, quando l’attività del soggettista è in pieno svolgimento e si sta preparando il passaggio da Milano a Roma, dall’editoria al cinema. Nei vari testi torna a più riprese il problema degli attori che bisognerebbe attingere dal varietà e dall’avanspettacolo, inesauribile vivaio delle «facce da cinema», destinate a imporsi nel dopoguerra, contribuendo più in là al decollo della commedia all’italiana. Sono stati aggiunti anche numerosi interventi del ’42-’43, dove è esplicito il senso del cambiamento che porterà alla rivoluzione neorealista. Il volume è pubblicato nella collana Cinema Sud diretta da Paolo Speranza in occasione del trentennale della scomparsa dello scrittore. Si anticipa qui parte dell’introduzione del curatore ai testi sul varietà, mentre la lettera aperta di Cesare Zavattini a Giulio Benedetti, direttore di L’Ambrosiano, è ripresa da Ecco Settebello del 13 aprile 1939.