In occasione della retrospettiva che inagura al Palazzo delle Esposizioni il 7 febbraio, pubblichiamo una conversazione inedita con l’artista realizzata nel 2007 che ha originato il video Le primavere pop di Cesare Tacchi, realizzato dal videoartista Antonello Matarazzo e visibile in mostra.

Il quadro alle sue spalle – che prende spunto dalla Primavera di Botticelli – è realizzato oggi, anche se si ispira alla sua produzione degli anni ’60. A differenza di altri suoi colleghi che hanno creato una distanza con il passato lei non si sottrae alle “repliche”.

Può capitare che qualcuno mi chieda: mi piacerebbe quel tipo di quadro e io glielo faccio. Certo, il mio lavoro di oggi è completamente diverso, ma se qualcuno desidera avere un quadro realizzato in quella maniera, se mi va lo accontento. Non ci trovo niente di male.

Come sono nati i quadri imbottiti, caratterizzati dall’uso di stoffe imbottite, in un contesto di generale superamento della rappresentazione bidimensionale?

Come mi sia venuta l’idea non lo saprei dire, poiché c’è sempre qualcosa di casuale. Diciamo che è una trovata. Si, è vero che in quel periodo c’era questa voglia di uscire dalla bidimensionalità dell’opera, del quadro. Si stava concludendo un certo periodo storico e quindi ho provato a sconfinare un po’ dalla superficie bidimensionale ma non più di tanto, con questa specie di bassorilievo.

C’è un riferimento all’arte classica, al bassorilievo quattrocentesco?

Se ci sia un riferimento al classico non lo so. Probabilmente si. Ma quando ho realizzato questi lavori non ci pensavo.

I suoi “quadri-oggetto” mettevano da parte anche la mimesi, la necessità di dover a tutti i costi rappresentare la realtà.

Si, appunto la rappresentazione era qualcosa che riguardava la classicità, dove i punti di riferimento erano prestabiliti, dove gli elementi erano già precostituiti come in una griglia. Diciamo che nel XIX e nel XX secolo, ha inizio questa frattura: cioè l’uomo finalmente scopre di esistere. L’uomo, insomma, può fare il discorso sull’uomo. Diciamo che in quel periodo io lavoravo probabilmente senza neanche sapere cosa stavo facendo. C’era questa sorta di gara in cui ognuno doveva fare la cosa più sorprendente, più nuova, quindi rompere col passato. Comincia l’era della pop art, che – a mio giudizio – si inaugura a partire da Rotella il quale, giocando con i suoi compagni di strada, comincia a strappare manifesti pubblicitari. La nostra realtà era appunto la realtà dell’immagine, non era più la realtà reale, e quindi vissuta con pathos, con quella partecipazione che ancora c’era all’epoca della pittura informale. Il quadro diventa un oggetto. Quando dico che la realtà è quella dell’immagine – definizione inventata da Cesare Vivaldi, se non ricordo male – voglio sottolineare che ci interessava lavorare sull’immagine, che fosse pubblicitaria o cinematografica. Noi non guardavamo la figura nella realtà, ma attraverso la mediazione riproduttiva. Questo era il mio, il nostro approccio.

Rispetto ai lavori di altri suoi colleghi e compagni di avventura, Mambor e soprattutto Lombardo, le sue opere danno l’impressione di essere meno rigide e programmatiche.

E’ chiaro che il lavoro di Lombardo è diventato sempre più programmato e teorico. Lui, in effetti, era il teorico della situazione: quando ci siamo presentati la prima volta al pubblico nel 1963, nella mostra alla Tartaruga, fu lui a scrivere il testo in catalogo poiché era quello che aveva studiato un po’ più di noi, tipo filosofia, ecc. Il testo è tuttora valido anche se un po’ presuntuoso. Io mi ritenevo – e mi ritengo – più libero dal seguire una traccia preordinata. Ho coniato una frase: “L’arte è la maestria di dare forma al caso”. Per me è un concetto importante questo, poiché non so neanche cosa può uscire dal mio lavoro. Come oggetto di ricerca può venir fuori qualsiasi cosa.

Trova corretta la definizione, forse abusata, di “Pop Art italiana”?

Io mi ci riconosco. Non che noi ci siamo messi lì a copiare gli americani o gli inglesi. Abbiamo fatto la nostra Pop Art, ma era così perché il quadro è un oggetto, la pittura è una stesura di colore, un po’ come fanno i grafici, i pubblicitari. Tuttora io dipingo, sono tornato alla pittura diciamo “classica”, olio su tela, ma se guardiamo quella pittura, siamo colpiti dalla stesura cromatica, dalle velature, dalle sovrapposizioni di colori; cioè non è la pittura viscerale e sofferta antecedente agli anni ’60. Anche adesso mi ritengo un artista pop. Molti hanno negato questa appartenenza alla linea pop, che era indubbia, cui si aggiungeva il nostro essere legati alla cultura del passato che ci consentiva di rivisitarlo attraverso la citazione del Botticelli per me o di Michelangelo per Tano Festa e via dicendo. E poi c’è il discorso sull’artigianalità, sui materiali utilizzati. Ceroli era falegname, io tappezziere, così come altri che avevano preso in prestito il “mestiere”. Ma la realtà però qual era? Sempre quella riprodotta, non quella – diciamo così – in carne e ossa.

Parliamo del suo legame di amicizia con Mambor e Lombardo.

C‘era un ottimo rapporto di lavoro, di frequentazione, di discussione, di critica e poi a un certo punto abbiamo avuto l’opportunità di mostrare quello che facevamo attraverso la collettiva allestita da Plinio de Martiis, la nostra prima uscita importante.

Avete anche condiviso insieme lo stesso atelier?

Si, in qualche occasione e quindi lavoravamo insieme, parlando molto tra noi, anche criticando reciprocamente i nostri lavori. Ma non eravamo realmente un gruppo, con un manifesto e un’ideologia che ci contraddistingueva, tanto è vero che ognuno aveva già individuato quale fosse la sua strada; infatti, con il tempo, sono emerse le nostre diversità.

Può raccontarci come ha vissuto la Roma degli anni ’60 e quali erano le sue frequentazioni all’epoca, a parte Mambor e Lombardo? Si potrebbe disegnare una sorta di geografia passando in rassegna i vari artisti che facevano gruppo tra loro.

Questa solidarietà tra artisti credo fosse dovuta a questioni di pura contingenza e opportunità. Oggi, per esempio, parlare di “scuola di Piazza del Popolo” è, a mio avviso, una forzatura. A Roma in quegli anni gravano tanti artisti. Io personalmente avevo rapporti con i piemontesi come Mondino, Pistoletto o Paolini, che sono tutti venuti a Roma e hanno contribuito ad arricchire l’ambiente culturale. La cosa importante di quel periodo è che si potevano fare grandi incontri. Roma per alcuni anni è stata il fulcro mondiale dell’arte e non esagero. Sono venuti gli artisti pop americani e perfino Duchamp: ricordo la sera che lo incontrammo alla Tartaruga e in cui non proferì neppure mezza parola. E poi non dimentichiamo che, oltre all’arte, c’era la poesia, la musica, il teatro…tutte espressioni importanti, stimolanti, che creavano le condizioni per poi produrre un’arte nuova, che promuovesse delle situazioni particolari, cosa che oggi non esiste più. C’erano dei “campioni” non dei dilettanti e noi si stava tutti i giorni, tutte le sere, tutte le notti a parlare con personalità del genere. Devo dire che, personalmente, non ho avuto rapporti molto ravvicinati con personaggi importanti come altri artisti hanno avuto. Mi sono tenuto un po’ in disparte dalla “mondaneria”.

C’era rivalità tra gli artisti?

Beh si, esisteva la competizione. Quando noi allestimmo la mostra alla Tartaruga, dopo qualche giorno dall’inaugurazione vennero Festa, Schifano e Lo Savio a dare il voto, a farci l’esame e a dirci: questo va bene, questo no. All’epoca io dipingevo ancora le automobili, i taxi, ecc. con molta precisione, senza scolature, e l’appunto di Lo Savio fu: “Dovrebbero essere fatte come se uscissero dalla fabbrica”. Insomma c’era questa tensione perché arrivava il nuovo che scalzava il vecchio. Ma era normale ed era interessante. Oggi questo non succede più, sono tutti d’accordo, almeno di facciata. E poi comunque c’era uno scambio: loro guardavano noi, noi guardavamo loro, tutti prendevano dagli altri qualcosa che gli serviva. Perché nessuno inventa nulla. L’artista lavora non per il pubblico ma per confrontarsi con le idee degli altri artisti.

Rispetto ad altri suoi colleghi che in quel periodo giravano film lei non ha mai sentito la necessità di avvicinarsi alla cinepresa.

Personalmente non ho fatto film, anche se c’è stato un momento in cui si era diffusa una vera e propria mania. Mi limitavo a trovare fotogrammi di film che mi interessavano, per poi utilizzarli nelle mie opere, ma non ero io l’autore di quei fotogrammi.

Dal quadro oggetto lei è passato in seguito all’oggetto puro: mi riferisco alla Poltrona chiusa, una vera e propria operazione di anti-design.

Il poeta Nanni Cagnone la chiamò In vece, perché non si poteva utilizzare ed era contro l’uso dell’oggetto. Siamo nel 1968 e il mio discorso si conclude con la cancellazione d’artista eseguita nel corso del “Teatro delle Mostre”. E, dopo qualche anno di riflessione, mi ripresento facendo il contrario della cancellazione, ovvero una “riapparizione” e comincio a trovare la mia strada. Intorno al 1975 riprendo a dipingere su tela, confrontandomi di nuovo con la bidimensionalità.

Quindi il 1968 è stato per lei un anno cruciale.

Devo dire che ho avuto un po’ una scissione di fronte a questo evento: in parte ero d’accordo, in parte no. La cosa che mi interessava di più era continuare a fare il mio mestiere.

Ritornando al “Teatro delle mostre” alla Galleria La Tartaruga, che ricordo ha di quella famosa serata?

Non c’era molta gente ad assistere all’intero happening. Non fu una cosa spettacolare. Se si riproponesse oggi probabilmente ci vorrebbe il Circo Massimo, mentre all’epoca – malgrado quello che si può pensare – c’erano le solite persone, poche ma davvero interessate. Di fronte alla mia azione – che oggi si chiamerebbe performance o qualcos’altro – il pubblico reagì con un po’ di emozione. Perché alla fine io sparivo, quindi era come una morte. La lastra dipinta diventa una lapide che cancella la figura dell’artista segnalando il passaggio a una nuova fase. Oltre alla cancellazione e alla poltrona chiusa dove non ci si può sedere, realizzo la cornice senza quadro (esposta sempre nel ’68), la porta che non si apre e così via. C’è insomma nel mio lavoro questa negazione del rapporto tra artista e fruitore. Non voglio far vedere. Non voglio dire. Mi dico: aspettiamo un attimo. Fino a quando nel 1975 mi rimetto a fare il pittore in modo canonico, restando tuttavia sempre pop nell’esecuzione del dipinto, senza pathos ed emozione, ma attuando un’operazione concettuale e mantenendo margini che servono alla casualità: può capitare che avvenga qualcosa di imprevisto che mi apre nuove strade, creando altre possibilità.

Di questa nuova fase fa parte un quadro fondamentale, Le Sécrétaire, del 1980.

Si. Diciamo che è un’opera che segna il passaggio dalla realtà dell’immagine, che termina con la cancellazione, a quella che il filosofo Giacomo Marramao ha definito “biologia dell’artificio”. Ho dipinto il quadro guardando la foto che mi ha scattato un amico e che ritrae due figure tra gli alberi di Villa Pamphili: ovvero io e il mio assistente cui rivelo alcuni segreti (da qui il titolo). In primo piano vi sono alcuni fogli sparsi per terra: non cadono foglie bensì fogli, i quali rappresentano un invito ad entrare nel quadro, ma possono anche nascondere una trappola, poiché è impossibile decifrare cosa avviene nella rappresentazione. Io stesso ho cominciato a capirlo anni dopo. Intorno a questo dipinto a olio si è discusso molto, alla Galleria La Salita, dove fu esposta, ci fu anche un dibattito tra psicoanalisti e storici dell’arte.

Dove si trova attualmente quest’opera?

Il quadro è di mia proprietà, non cedibile a nessun prezzo, perché troppo importante per me. Diciamo che considero quest’opera la madre di tutta la mia produzione successiva costituita da disegni, quadri e sculture.

[trascrizione rielaborata di una videointervista realizzata nella galleria di Fabio Falsaperla il 2 ottobre 2007]

BOX

Al Palaexpo’ una retrospettiva su Cesare Tacchi

La prima retrospettiva su Cesare Tacchi (Roma 1940-2014), inaugura mercoledì 7 febbraio al Palazzo delle Esposizioni di Roma e sarà visibile fino al 6 maggio. Curata da Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi, Cesare Tacchi. Una retrospettiva vuole tracciare, attraverso circa un centinaio di opere le vicende dell’artista, ripercorrendo allo stesso tempo le tensioni intellettuali di oltre mezzo secolo. Dalle “tappezzerie” alle sculture in vilpelle degli anni ’60 (i quadri-oggetto), dalle opere concettuali – tra cui le cancellazioni – fino alle grandi tele degli anni ’80 come Uccel di bosco e Spirito dell’arte (il trittico del 1990), questa grande personale vuole restituire l’immagine completa di un artista multiforme, che ha saputo attraversare fasi diverse, confrontandosi con il problema della pittura ma, soprattutto, con il suo superamento, operando una riflessione sull’arte sempre con l’arma dell’ironia e del paradosso. Il catalogo della mostra include i saggi delle curatrici, le tavole e le schede delle opere esposte, un’antologia di testi critici dedicati all’artista, una selezione dei suoi scritti (molti dei quali inediti), un’estesa cronologia e una sezione di apparati espositivo- bibliografici. Inoltre – come consuetudine del Palazzo delle Esposizioni – la mostra sarà accompagnata da una serie di eventi collaterali, tra cui due conferenze tenute delle curatrici che ripercorreranno cronologicamente l’attività di Tacchi.

NOTA BIOGRAFICA

Protagonista dell’arte italiana degli anni ’60 e incluso nella cosiddetta “scuola di Piazza del Popolo”, Cesare Tacchi (1940-2014) esordisce esponendo nel 1959 alla galleria Appia Antica insieme a Fioroni, Festa, Angeli, Lo Savio, Mambor e Lombardo (con questi ultimi due artisti crea un sodalizio particolarmente stretto). Successivamente espone a La Salita, a L’Attico ma soprattutto alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, iniziando nel 1964 la produzione dei suoi famosi quadri “imbottiti”, come Poltrona gialla e Poltrona rossa. Si tratta di tele costruite con inserti di tappezzeria e stoffe per l’arredamento, patchwork sui quali tracciava figure a smalto nero, spesso sagome con volti di amici, immagini tratte da film e pubblicità. In seguito Tacchi sconfina verso opere-oggetto, elementi di arredo impossibili, poltrone inutili, porte e sedie incongrue. La sua cancellazione d’artista segna l’inizio di una fase nuova, di ordine più concettuale, mentre negli anni ’80-’90 l’artista ritorna alla pittura, realizzando quadri ricchi di texture grafiche, ma anche rielaborando gli elementi figurativi presenti nelle opere degli anni ’60. Tra le sue partecipazioni ricordiamo quelle al Palazzo delle Esposizioni di Roma, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna e alla Quadriennale di Roma.