Sebbene le amicizie intellettuali siano fondamentalmente di due tipi – quelle che si sviluppano attraverso una essenziale complementarietà, e quelle che si fondano su un antagonismo – nessuna delle due categorie ci viene in aiuto nel caso di Cesare Pavese ed Ernesto De Martino. La loro non fu un’amicizia intima sebbene, fin da un primo sguardo, appaiono evidenti i termini della loro intesa e della loro complementarietà.

Da un lato, il più autorevole collaboratore di Einaudi, dall’altro, il massimo esponente dell’etno-antropologia italiana, uniti in una delle più significative operazioni culturali del dopoguerra: la creazione di quella «collana viola» per Einaudi, che divenne presto celebre per aver reso disponibili al pubblico italiano una selezione dei testi fondamentali dell’antropologia, dell’etnologia e delle scienze religiose. Erano gli anni più bui della storia italiana, quelli dell’occupazione nazifascista: la guerra costringeva a fare i conti con gli aspetti rimossi e spesso negati dell’esperienza psichica e religiosa, e di qui il progetto della collana, che sarebbe effettivamente decollata solo nel dopoguerra.

Al centro, il «magismo» e il mito, intesi come forme e sintomi di un «mondo» che finisce. Il mito non in quanto appartenente a un tempo remoto, bensì alla condizione ricorrente della «crisi della presenza», nella quale vengono a mancare le memorie e le esperienze che rendono sensata e comprensibile la realtà.

Storicizzare l’irrazionale
La collana rispondeva a quel «bisogno di più ampi orizzonti culturali», che a fronte della guerra – si legge – «caratterizza la crisi contemporanea dell’umanesimo tradizionale». In Europa erano gli anni del dibattito sull’umanismo di Heidegger e di Sartre, mentre in Italia la giovane casa editrice Einaudi cercava di tenere insieme le diverse anime della resistenza, così come le sue tensioni.

Pavese le incarnava tutte: mandato al confino, non partecipò attivamente alla resistenza e nel 1946 si era iscritto al Partito Comunista, mantenendo però una freddezza impolitica. Non a caso era il consigliere di spicco della casa editrice. Il catalogo proposto da Pavese e De Martino è saturo di nomi oggi celebri: James Frazer, Lucien Lévi-Bruhl, Karl Kerényi, Karl Gustav Jung e Mircea Eliade. Molti di loro sono autori che, oltre a essere talvolta direttamente compromessi con il fascismo, hanno reso le torbide acque del mito non tanto l’oggetto di uno studio rischiaratore, quanto il bagno rigenerativo della tarda Zivilisation. Riassunte e riportate in vita, le «idee senza parole» proprie al mito e alle origini secondo Jesi rappresentano il vero fondamento delle ideologie di destra.

Il contatto controllato con questi «lavori relativi al ‘lato oscuro’ del genere umano» sarebbe servito – secondo De Martino – a immunizzarci dal «lato oscuro della nostra stessa anima di ‘occidentali’ e di ‘moderni’». Ma se per lui «l’incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti» era compito dello storico e dell’antropologo, per Pavese la missione spettava alla poesia. «La poesia è, ora, lo sforzo di afferrare la superstizione, il selvaggio, il nefando, e dargli un nome, cioè conoscerlo, farlo innocuo». Per ottenere questo scopo, il confronto con il mito andava esentato da ogni tutela, da ogni avvertenza: era «una selva da ridurre a coltura», ma occorreva prima attraversarla fino in fondo.
L’atteggiamento di Pavese prescindeva così del tutto «dal problema di una distinzione tra il vissuto mitico e l’esperienza estetica». Per De Martino, viceversa, si trattava anche e soprattutto di mantenere lo sguardo critico della coscienza, capace di «storicizzare l’irrazionale», recuperando l’idea di Leone Ginzburg di una «prefazione-antidoto», capace di preservare quella distanza dal testo e dal mito, che sola garantisce l’autonomia della critica.

Cinque anni di lettere
Sulla tensione tra queste due visioni si giocò una molto intensa vicenda culturale e umana, di cui sono testimonianza anzitutto le lettere, da poco in una nuova edizione, Cesare Pavese ed Ernesto De Martino, La collana violaLettere 1945-1950 (Bollati Boringhieri, pp. 299, € 24,00), che grazie ai nutriti apparati a cura di Pietro Angelini permette al lettore di ripercorrerne non solo i momenti espliciti, ma anche quelli più nascosti. Solo sulla loro base, infatti, assumono una tonalità tragica e irrisolta i tentativi di distanziamento di De Martino, prima e dopo il suicidio di Pavese; così come acquisiscono una speciale pregnanza le pagine che l’antropologo intendeva dedicare allo scrittore nel suo ultimo progetto, non concluso, sulle apocalissi culturali, dove scrive: «in fondo anche Pavese è alla ricerca della esperienza zero, della origine della storia, di un assoluto il cui ricordo restituisca senso al mondo che rischia di finire nella sua umana operabilità». Ma, aggiungeva, «per quanto il pensiero possa risalire nella storia», questa «esperienza zero non esiste».