Dalla morte di Cesare Brandi (Vignano, Siena, 19 gennaio 1988), l’impegno di Vittorio Rubiu, suo figlio adottivo ed erede, a promuovere la figura e l’opera del «professore», è stato totale. Infatti, in tre decenni, si sono moltiplicati i convegni, le pubblicazioni di libri, le traduzioni all’estero di testi che non siano la sempre attuale Teoria del restauro.
Ora, Rubiu si supera e, con l’acribia sostenuta dall’affetto, avendo a fianco Marilena Pasquali, mette in piedi un libro non dissimile da una rappresentazione teatrale, da un’opera lirica, da una ouverture classica, con tanto di antefatto, di prologo e di epilogo, dove la musica è affidata alle parole che, in duecentocinquanta lettere datate 1932-1988, spesso inedite, appositamente selezionate a mo’ di azioni sceniche precedute da notizie biografiche, raccontano cinquantasei anni di vita pienamente vissuta nel culto del viaggio come scoperta di se stessi, dell’amore e dell’amicizia, della musica e della cucina, dell’arte e della poesia, quest’ultima inseguita nell’ordine di una quotidianità da grande intellettuale, proprio di chi ha segnato il mondo culturale del ventesimo secolo senza mai prescindere dai propri sentimenti: Cesare Brandi, Credi al mio pessimo e tenerissimo carattere Lettere 1930-’81, a cura di Vittorio Rubiu Brandi e Marilena Pasquali, Castelvecchi, pp. 416, euro 35.00).
Infiocchettato con la mamma
Personaggi singolari e figure di passaggio, piccole storie e grandi episodi, incontri e scontri, affinità e contrasti, sospetti, equivoci e pudori, delusioni e successi, improvvise ripicche e deciso riserbo, giudizi taglienti e tenerezze insospettate, sorretti da una corrispondenza cronologica che si apre con la fotografia di un elegantissimo e infiocchettato Cesare Brandi con la mamma Nella Matini e il fratello Baldo (1910) e si chiude con il telegramma spedito a Renato Guttuso per la morte della moglie Mimise (6 ottobre 1986), dove la propria disperazione, in solitudine e rassegnazione, viene proiettata su quella dell’amico, costruiscono ogni volta quell’ambientazione che solo una sensibilità a pelo di rasoio e un linguaggio nitido e preciso possono tenere in piedi, inanellando un ciclo di appuntamenti all’altro, tanti quadri di uno scenario per una partitura senza confini, attraverso l’ordine degli accadimenti introdotto dalle storie precedenti, la cadenza degli avvenimenti strettamente connessi agli interlocutori e al costante scintillare delle riflessioni che con meravigliosa strumentazione sviluppano tutte le teorie e tutti i temi che Rubiu, estrapolando, ha raccolto in un indice ragionato degli argomenti dalla A alla Z, da Acropoli a Zoagli, da Afro ad Arcangeli, da Burri a Calvesi, a De Libero, De Pisis, Foucault, Leoncillo, Manzù, Pascali, Proust, Sbarbaro, Ungaretti, Vlad.
Vogliamo ricordare alcuni cammei? Amicizia: «Come si vivrebbe senza questa consolazione grande dell’amicizia? Senza amanti si può vivere, ma senza amici no». Poesia: «In fondo la mia vita poetica è una disperazione, quando scrivo e, quando non scrivo, una disperazione per quello che ho scritto». Solitudine: «Quanto è spoglia, e sassosa questa solitudine, questa indipendenza che sembra un feroce sarcasmo». Amsterdam: «Amsterdam ha un suo fascino di vecchia città tirata a lucido. In questo senso è come una persona che vuole essere giovane di quello che è: pure ha un suo fascino lontano. È come se si ricordasse da ragazzi quando era più bella, più fresca». De Chirico Giorgio: «Da ieri ho incominciato il giro delle isole: con Castelrosso, a due passi dall’Anatolia. È tutta un sasso scheggiato, da fondo ferrarese, senza un albero e con una grotta azzurra che, mi si dice, è più bella di quella di Capri. Il porticciolo poi è una cosa squisita, finto e irreale nella sua modesta, borghese successione di casette rosa, bianche, gialle, tutte ugualmente linde e in gran parte disabitate. A un tratto ho saputo da dove ha tolto De Chirico quei bianchi gessosi, quegli azzurri sciolti nel latte e quelle forme fra il tempietto greco e il boccascena di un teatro di burattini. Ho sentito come poeticamente sia stato rivissuto da lui l’aspetto povero dell’Ellade moderna, questa miseria che si cela sotto una densa ammanitura di calce».
Ogni lettera, anche a distanza di anni, nonostante i collegamenti evitino di farsi espliciti, amplia o approfondisce la collocazione originaria, si arricchisce di nuove personalità e insolite situazioni, traccia l’evolversi dei rapporti, modifica o completa la trama dell’opera iniziata da Brandi a Siena l’8 aprile 1906, in una famiglia dell’alta borghesia, fatta di avvocati e musicisti, e subito indirizzata verso l’arte attraverso la laurea in lettere all’Università di Firenze, con una tesi sul pittore senese Rutilio Manetti, allievo di Ventura Salimbeni e Francesco Vanni, cresciuto tra manierismo e barocco.
I fogli indirizzati al «ragazzaccio»
Lo sfondo che ha condotto agli eventi narrati è immediatamente evidente dal parterre degli interlocutori: Ranuccio Bianchi Bandinelli e Giulio Carlo Argan, Mario Tobino e Emilio Cecchi, Roberto Longhi e Giuseppe Raimondi, Giorgio Morandi e Luigi Magnani, Renato Guttuso e Toti Scialoja, Enrico Vallecchi e Eugenio Montale, Sergio Romiti e le sorelle Morandi. Tra l’una e l’altra lettera, a partire dal 10 giugno 1953, ecco inserirsi, come commento e complicità, definizione di un clima e di un carattere, ricerca di pace e accettazione di manie, i fogli indirizzati al «ragazzaccio» Vittorio Rubiu, quasi lo spazio che ha accolto vicende e persone, avesse bisogno, per forma e durata, di un completamento di quella storia iniziata anni prima e, attraverso toni e situazioni non solo sotterraneamente tenere e ironiche, si fosse conclusa sempre come Brandi l’aveva prefigurata.
Nasce da questo metodo di scrittura, proprio dello scambio epistolare dell’epoca condotto sul filo della storia (Brandi scalda le parole come un musicista il proprio strumento e, nel corso degli anni, le tempera lasciando acceso il fuoco o spegnendolo a seconda dell’interlocutore e delle azioni che lo indignano), e dall’intelligenza con la quale il libro è stato montato (la foto della madre di Brandi con i due figli è un vero e proprio preludio strumentale che apre a una sinfonia) il fatto che la lettura delle missive, non dissimili dagli episodi di una saga, affascina come un romanzo del quale ogni volta si vuole conoscere il finale. In questo caso un epilogo drammatico, solo che si pensi a quanto il destino, tra gioie e dolori, riserva a Brandi negli ultimi anni: nel 1982 esce da Einaudi Diario Cinese, nel 1983 da Mondadori Giotto, nel 1985 sempre da Einaudi esce il Disegno dell’architettura italiana e subisce l’atroce offesa dell’amputazione di una gamba a causa dell’occlusione della vena femorale.
Con Magnani, fuori del tempo
Eppure, andando a ritroso, ripercorrendo e incrociando le lettere, è proprio il dono dell’amicizia a tirar fuori le qualità o le manchevolezze di Bianchi Bandinelli («certe figure della nostra vita, non ce ne accorgiamo che quando scompaiono, che occupavano un posto, e forse erano divenute un modo del nostro spirito»), di Raimondi («desidero che qui non una parola resti con il suo solo significato oggettivo, e che questa trasmigrazione di immagini divenga perspicua al sentimento ma intraducibile in un preciso nesso logico»), di Magnani («noi eravamo vissuti per un ideale di civiltà che era quasi fuori del tempo: e scrivere questo mi fa orrore, perché che cosa è il tempo per l’uomo se non la coscienza stessa che prendendo possesso di se stessa si spinge nel futuro realizzando l’umanità?»), di Guttuso («le gioie come i dolori hanno bisogno di eco: molto più che la gioia si consuma in un attimo e, a differenza della vendetta, va consumata calda»), dello stesso Montale («quando mi scrivi sulle tue condizioni di salute è spiacevole e sorprendente. Che forza d’animo a rianimare il mutismo e il sussiego delle Giubbe Rosse con la tua inesauribile causticità!»).
La stretta di mano che gli amici si sono dati «per sempre» ha permesso a Brandi di non chiudere mai il cerchio dei suoi pensieri. Ecco perché continuiamo a leggerlo con interesse sempre vivo, attenti a percepire il più piccolo segno di un tempo e di un mondo nei quali la cultura era il cuore dell’esistenza.