In tutte le letterature esistono libri che hanno agito da detonatori, producendo deflagrazioni fondamentali, capaci di creare una cesura tra due epoche, prima e dopo la loro apparizione. Sebbene le conseguenze si siano viste solo dopo alcuni anni, Trilce – la raccolta che il poeta peruviano César Vallejo pubblicò nel 1922 (senza grandi accoglienze almeno fino alla riedizione spagnola del 1929) – ha funzionato come un’esplosione sotterranea, di cui si avvertono gli effetti solo a posteriori. Proposto ai lettori italiani per la prima volta come volume singolo, questo fondamentale titolo ha una nuova, e molto buona, traduzione di Lorenzo Mari (Argolibri, pp. 199, € 15,00) che si confronta con quella ormai storica di Roberto Paoli contenuta nelle Opere complete, purtroppo introvabili ormai da molti anni.

È costituito da settantasette poesie, scritte tra il 1919 e il 1922, un periodo cruciale nella vita di Vallejo i cui momenti chiave sono stati la morte della madre, un arresto ingiustificato, con la successiva permanenza in carcere, e su un altro versante i primi contatti con le avanguardie, peraltro non del tutto convinti. Ma la lettura di Trilce deve andare ben al di là delle relazioni con la biografia, perché il libro supera di gran lunga tutti i postulati dei movimenti contemporanei, lasciandosi alle spalle anche i precedenti dello stesso Vallejo.

Oltre il modernismo
Se la prima raccolta, Los Heraldos Negros, mostrava ancora l’influenza tardiva del modernismo, in cui si affacciavano esperimenti verbali di nuova fattura, in Trilce tutti gli elementi della prima raccolta esplodono, per dare vita a uno dei testi più radicalmente innovativi della poesia in lingua spagnola del Novecento, un libro che sconcerta, sorprende, costringe il lettore a interrogarsi a più riprese sulla natura stessa del linguaggio e della realtà, prerogative che lo rendono appartenente ai libri irrinunciabili, dove si cerca non tanto di descrivere o interpretare il mondo reale, quanto di fondarne uno nuovo, che trovi nel linguaggio il suo punto di partenza.

Il titolo, Trilce, è un neologismo, che nonostante i numerosi tentativi di spiegarne genesi e significato, rimane misterioso, suggestivo nella sua sonorità, così come la sequenza dei poemi, legata solo alla progressione dei numeri romani, dove non si rivela alcun ordine precostituito. A una prima lettura, il libro disorienta per il suo ermetismo complesso, per il diffuso uso di neologismi, per lo sconvolgimento delle strutture sintattiche, che si accompagnano alla sensazione di trovarsi di fronte a una parola in grado di trasmettere un più profondo senso della realtà.

Risultato che Vallejo ottiene grazie a una tecnica definita dalla critica come poetica della cancellazione, una progressiva e inesorabile eliminazione di tutti quegli elementi referenziali, autobiografici, spaziali, temporali che funzionano come punti di riferimento nei confronti del mondo reale. L’universo di Vallejo è un caos illeggibile, retto solo da leggi inesplicabili: «E se così sbatteremo il naso / contro l’assurdo / ci ricopriremo dell’oro di non avere nulla».

La possibilità di esprimere un simile magma nasce dal rifiuto dell’idea che la poesia sia armonia degli opposti, rivelazione del segreto ordine delle cose, e da questo rifiuto emerge un lavoro di ricerca capace di far affiorare gli aspetti più contraddittori, utilizzandoli per elaborare un nuovo linguaggio poetico. Così, in Trilce prende corpo una vera e propria nebulosa di immagini, segnali luminosi che ritornano ossessivamente, e che solo obliquamente rinviano all’esperienza dei fatti: i segni assumono vita propria, le parole si impongono con tutta la loro forza espressiva.

Il commento di Ortega
Una presenza insistente di elementi temporali legati ai numeri (mesi, anni stagioni, ore del giorno), si somma a immagini di incompiutezza (l’essere sempre orfani), a reiterati riferimenti alla vita sessuale, a ripetuti rimandi al carcere come situazione esistenziale, andando a formare un arsenale di oggetti e situazioni il cui inventario completo attraversa tutto il libro.

Nessuna consequenzialità logica governa l’apparizione di queste immagini, che soggiacciono invece all’esplosione di una lingua in grado di recuperare tutta la sua forza. Julio Ortega, uno dei migliori interpreti di Vallejo, ha scritto: «È questa una poesia nuova che opera tra grandi tensioni con l’acutezza e la flessibilità di una lingua nello stesso tempo drammatica e ironica, tribale e universale, orale e arcaica, regionale e tecnica, neologista e agrammaticale, remota e attuale. Anche per questo un tale processo è una gestazione, non una serie di regole, e a volte inciampa, diviene oscuro, si esaspera nel proprio balbettio; non cerca di dire meglio, ma piuttosto di dirlo per la prima volta, e la sua meta non è l’estetica del dire, quanto quella del non-dire».

La grande innovazione dei componimenti raccolti in Trilce consiste nel fatto che la potenza del linguaggio metaforico riesce a dare un nuovo significato alla combinazione dei segni, caricandosidi una sovrabbondanza di senso, e mentre cancella il mondo come complesso di oggetti disponibili e manipolabili, apre la realtà a nuove dimensioni.

Interazione continua
L’esperienza di tutta la poesia di Vallejo ribalta il rapporto consueto con la scrittura poetica: non sono più l’autore e il lettore a dominare l’universo dei segni ma è la parola stessa che interpella e richiede un’interazione continua, sollecitando un coinvolgimento non solo intellettuale. La lingua, costruendo la sua voce, impone una partecipazione non passiva, alla ricerca di un dialogo costante: una voce che si mostra in tutta la sua nudità, gravata del peso costituito dalla prigione temporale in cui è reclusa. In questa ricerca di un tu dialogico, che troverà poi la sua maggiore espressione nei Poemas humanos, Vallejo supera di un balzo il rischio di una poesia esoterica, rinchiusa nel suo ermetismo, e giunge a dare espressione a una diversa forma di realtà, come ricorda Giuliano Mesa nella notevole postfazione di questa edizione italiana.

Nel 1923 Vallejo lascia il Perù per approdare a Parigi, ma il suo viaggio in Europa sarebbe stato quello di un migrante: lottò con mai risolti problemi di salute, con una situazione economica spesso precaria, e – continuamente – con le autorità di polizia, fino all’espulsione dalla Francia nel 1930.

In quegli anni, anche di grandi passioni, la realtà frammentata e assurda prefigurata in Trilce diventerà esperienza quotidiana, fino all’assurdità suprema della guerra civile in Spagna, che segnerà gli ultimi anni della sua vita e a cui dedicherà España aparta de mí este cáliz, omaggio estremo alla Repubblica Spagnola, ormai sul punto di venire travolta dall’esercito franchista.