rrivato a Serrone, dopo una serie di stradine tortuose, nel quartiere La forma, mi fermo al Bar Lazio. Da lì, in alto, il vecchio borgo s’intravede sopra una cinta muraria negli spazi che stanno tra i rami dei sempreverdi, dove scorgo una catena di case che, dal nucleo storico, si distendono e allungano sparse sul versante del monte Scalambra, alto e scuro, con sopra una cresta di bosco fitto di faggi, carpini e lecci.
Conoscere un vino, come il Cesanese del Piglio, l’unico Docg del Lazio, il cosiddetto rosso dei castelli, significa avere cognizione anche di questa terra che subito mi appare cordiale, con un conio di genuina autenticità ancora patrimonio della Ciociaria, specie tra Serrone, Piglio, Affile e Olevano romano, in un’Italia interna che conserva tradizioni e radici.

QUANDO AL BAR INCONTRO AUGUSTO, che è stato il postino storico del quartiere dove siamo, è un uomo dai folti capelli lisci argentati e i baffi ingrigiti. Andando di casa in casa, gli capitava di bere: «poco», dice reticente, oppure cauto «qualche volta», naturalmente il Cesanese, ammette, «un vino scuro che va abbinato con i piatti forti. Ha un sapore pastoso, è come se stessi mangiando l’uva in quel momento, un sapore pieno», dice sbilanciandosi. «Capitava che al lavoro me lo offrissero», confessa, «e se era buono ci passavo più spesso», dice adesso bonario e divertito, «anche solo se avevo una pubblicità», ammettendo le sue piccole trasgressioni. «Quando arrivavi apparecchiavano la bottiglia, versavano il vino nel bicchiere e dovevi berlo». Adesso ha rotto il ghiaccio, si lancia in un racconto degli anni giovani e ricorda anche le sbronze prese con un suo collega di Colleferro soprannominato «Spugna», «sarà morto» sussurra pensoso. A sentirlo raccontare, mi ricorda Henry Chinanski, detto Hank, il postino delle United States Postal Service ubriacone con la fissa per le corse di cavalli del romanzo Post office di Bukowski. Posso immaginarmi le giornate fredde, la borsa a tracolla, per strada a sfidare il vento e la pioggia in sella alla vespa lungo le strade bagnate. «Quando il tempo era brutto, non si poteva consegnare, allora capitava di fermarsi nelle case delle famiglie con le quali avevi più confidenza. Più se la passavano male, e più erano generosi», ricorda di quegli anni, «allora ti fermavi a parlare e bevevi qualche bicchiere di Cesanese».

PIÙ TARDI INCONTRO IL PRETE, che in realtà è un diacono e si chiama Josè, di origini cilene e spagnole, piccolo di statura, capelli neri corti e carnagione olivastra, un volto ovale e gli occhi piccoli e ovoidali come quelli di un uccello. «Mi piace il posto», esordisce, «dove c’è il vino esiste sempre una mentalità di condivisione, il mondo culturale intorno è uno dei motivi per sentirti accolto». Il prete giovane è molto attivo in paese, e come tutti i sudamericani ha una visione vitalistica dell’esistenza: «la teologia dice che il vino è il simbolo dell’amore, il vino è gioia, l’allegria, l’amore, dio è amore. Lui pensa che tutto questo abbia a che fare con la mentalità mediterranea, «anche se sei nato 19 mila chilometri lontano hai questa mentalità del vino», sostiene, «il Cesanese è un vino che considero nobile, carico come tutti i vini fondamentalmente tipici, frutto di una campagna ancora arcaica, ti fa venire la voglia di parlare», dice divertito, «bevendo senti la freschezza e l’autenticità del posto».

IL GIOVANE FARMACISTA SI CHIAMA VALERIO ed è un ragazzo borghese delicato e gioviale dai modi calmi. Si professa un piccolo esteta, «preferisco bere poco ma bene», e detesta la cultura del bar, dove c’è stato un cambiamento profondo nei consumi, che moralisticamente biasima, «fortuna che al Bar Lazio, un punto di riferimento, combattono il Campari e la birra con lo spritz al Cesanese!» dice divertito. Quando gli chiedo di raccontarmi il vino, allora comincia, aulico, «si sentono profumi di boschi, l’odore del legno delle botti, un insieme d’essenze» dice trasognato, ricordando la sua memoria degli odori, «come la prugna, un legame profondo, viscerale». Il Delicius è il suo preferito, si produce nella frazione La roscia, «è molto più fruttato degli altri, che sono più aspri e tanninici, è un Cesanese che risveglia i ricordi», come quello di quando era piccolo e lo portavano in cantina, dove intingeva il mignolo nel bicchiere assaporando in bocca, succhiandolo, il sapore morbido e leggermente amarognolo di quel nettare.

MA SE VUOI VEDERE UN VIGNAIOLO ALL’OPERA, uno che vive in simbiosi con la vigna, devi andare da Giovanni Terenzi. Fisico asciutto, i pochi capelli bianchi rasati, un paio di occhiali da vista dalla montatura classica, impugna le inseparabili cesoie quando lo incontro nel suo podere. Giovanni tra i filari sembra un insegnante, didattico mi spiega con calma, meticolosità, dice che le cesoie sono fondamentali, «un vignaiolo senza forbici…», fa senza finire la frase, poi si china su una vite e taglia, «è da levare questa puntina e la si fa fuori» dice saputo. Staccare i grappoli superflui è fondamentale, «tutto quello che rimarrà si concentra, si alza il grado, fa più colore, devi deciderlo tu», dice prima di far fuori un altro graspo, «devono essere indipendenti, non si devono toccare» spiega ancora mentre gira circospetto tra i filari del Cesanese d’Affile. «Se beviamo un bicchiere di Merlot, Cabernet, sentiamo un gusto potente, secco, invece questo è un vino che rimane dolce, gradevole, nonostante superi i 14 gradi». Se guardi le sue mani, sono già un racconto vivente, i palmi ruvidi e callosi, scuriti dal lavoro in campagna, le mostra mentre camminiamo in questo vigneto storico, «il migliore è il Colle forma, un Docg superiore, si chiama così perché la frazione dove siamo è la Forma, però mio nonno la chiamava Colle forma, sono otto ettari di terreno, li poto tutti da solo, tutte le mattine mi alzo alle 4,30, la sera vado a dormire alle nove e mezza, non mi piace fare tardi» dice ancora orgoglioso, «e lavorerò qui finché non morirò».

MA È SUA FIGLIA PINA LA NARRATRICE del suo vino, quella che con le parole ha inventato il Colle forma, perché un sommelier ha questa capacità di dare al gusto una storia, legare i sapori alla terra. Mentre parla emozionata di questo vino tenuto due anni di affinamento in botte e dodici mesi in bottiglia, calibra con sapienza le parole. «Ha la caratteristica di avere un colore rosso rubino, per quanto riguarda la parte olfattiva si sente il fruttato, la prugna sotto forma di confettura, e poi anche la ciliegia sotto spirito, sul floreale ci ricorda la viola e i ciclamini del bosco», continua il suo racconto, «ma anche note di tabacco che trasferisce il legno, e di mandorlo dolce, che si sente alla fine, tipico dei tannini gallici».

MARIO SOLDATI, NEI SUOI VIAGGI D’ASSAGGIO, venne anche da queste parti nell’autunno del 1975, fermandosi a mangiare alla trattoria Il gallo di Anagni, spinto proprio da un «indimenticabile» Cesanese del Piglio, che ricordava «dolce, pastoso, corposo, spesso, rosso cupo quasi nero, e di un gusto che soddisfaceva completamente malgrado la sua stranezza».