Tutto comincia nel 2004: Umberto Carpi (scomparso nel 2013), sanguigno capofila della accademia pisana, pubblica due densi tomi dedicati a La Nobiltà di Dante. Una profonda revisione della biografia del poeta che ne legge il capolavoro come work in progress, sorta di registrazione in presa diretta delle sue sofferte ma continue conversioni politiche da guelfo bianco a guelfo nero, da nero intrinseco (fazione vittoriosa dentro la cerchia delle mura fiorentine: Corso Donati, per capirci) a nero estrinseco (le castellanie, toscane e non, gravitanti in orbita filopapale: Moroello Malaspina, i conti Guidi di Dovadola), fino al conclusivo approdo ghibellino, approdo non privo di ambiguità, specie verso il presunto alfiere del ghibellinismo italiano, il veronese Cangrande della Scala. L’immagine di un Dante tetragono ai colpi della sorte ne esce demolita. La prospettiva, tutta politica, riordina e dispone le poche tessere documentarie, rilegge i passaggi fondamentali del poema: incasella senza difficoltà i più docili e – fata nolentes trahunt –, persuade non senza forzature quelli più riottosi. È testo arduo però: a una versione più cantabile provvede, con tratti di originalità e lavoro di aggiornamento, Marco Santagata (Dante. Il romanzo di una vita, Mondadori 2012), che con l’amico Carpi lavora, a Pisa, a contatto di gomito. L’operazione è intelligente e accattivante; il successo assicurato e meritato: la vena narrativa e la tempra dello studioso offrono una biografia dal volto umano, che relega in fondo al volume le arcigne note erudite e si nutre tanto di documenti quanto di condizionali. E i condizionali aggrediscono la tradizione biografica cristallizzata dal grande Giorgio Petrocchi, recuperandone vene carsiche o ‘ereticali’ e avanzando nuove e suggestive ipotesi: i primi canti della Commedia scritti già a Firenze; la Monarchia composta al tempo della discesa di Arrigo VII; Dante a Pisa e in Lunigiana tra 1311 e 1316; la sostanziale cancellazione del secondo soggiorno veronese, con l’elogio di Cangrande nel Paradiso ridotto a servo encomio; la «quasi certezza» della falsità della Quaestio de aqua et terra e il conseguente, precoce approdo a Ravenna. Il romanzo diventa vulgata pisana, e dalla torre della Muda dilaga, sino ad approdare alle soglie della prestigiosissima Harvard University Press: con buona pace dei trinariciuti filologi?
No. La nuova biografia dantesca di Giorgio Inglese, fresca di stampa presso Carocci, prova, fin dal titolo (Vita di Dante Una biografia possibile, pp. 191, euro 23,00), ad arginare la piena. L’intento dell’autore è evidente, e per altro chiarito nella premessa (pp. 11-12) «più che tentare l’ennesima ricostruzione lineare – di tenore romanzesco – della vita di Dante, mi è parso conveniente proporre una combinazione non troppo incoerente fra elementi certi, probabili o solo plausibili; e rendere il lettore partecipe della distinzione fra “certezza” storico-filologica (…), probabilità ragionata e, infine, semplice plausibilità – non gratuita ma euristica». La lezione di Santagata è imparata: solo testo; note per i curiosi poche, e in fondo. Ma lo stacco sembra netto. Il volume, agile e tipograficamente impeccabile, è scandito da continui rinvii all’acronimo CDD, il Codice Diplomatico Dantesco del Piattoli: summa di tutti i documenti d’archivio concernenti il poeta, sacra ai dantisti e su cui giurare ad occhi – quasi – chiusi. E poi, continui e diretti rimandi a testi (epistole dantesche, De vulgari, Commedia), cronache (Villani, Compagni), commenti e biografe antiche (Boccaccio, l’Ottimo, Pietro di Dante), riprodotti, quando del caso, in brevi estratti (se in latino, con opportuna traduzione). In appendice, a dare il tono, un saggio storico di Giuliano Milani sulla Firenze del Duecento, di rara lucidità. La scansione certo / probabile / plausibile appare rispettata: se può dirsi certo che «uscito dalla Porta di Piazza nell’ottobre del 1301, (…) Dante non rimise mai più piede nella sua città», la certezza sfuma risalendo i declivi del Casentino dove «l’evoluzione dell’atteggiamento dantesco verso Firenze (…) rende comunque probabile un approdo già nel 1309 ai castelli guelfi di Dovadola», secondo una antica tradizione che si deve al Boccaccio. Sulla vexata quaestio del viaggio a Parigi invece «la critica moderna deve limitarsi a prendere atto della tradizione, senza poterla confermare, né confutare» (p. 100).
Eppure, al netto del solido impianto documentario e delle dichiarazioni di principio, resta l’impressione che l’operazione di Carpi e Santagata abbia fatto breccia. Se è vero, ad esempio, che si respinge ragionevolmente la ‘novella’ dei sette canti e si avanzano giustificate riserve sulla datazione della Monarchia (la cui ipotizzata revisione dovrà collocarsi nell’ultima fase della vita di Dante), alcuni tra i tratti più ideologici e revisionisti della nuova ricostruzione biografica ne escono intatti, anzi confermati. L’omaggio clientelare di Dante al guelfissimo conte Guido Salvatico, col menzionare onorevolmente in Inferno XVI lo zio Guido Guerra, sarebbe coerente col tentativo di rientrare a Firenze, per il quale il nero Moroello Malaspina doveva costituire il primo garante, e di cui dà conto Leonardo Bruni nella sua biografia. Un Dante insomma riavvicinatosi ai guelfi neri, come s’è detto, nella speranza di lucrare da essi il perdono: salvo poi riabbandonare la prospettiva e convertirsi di nuovo al ghibellinismo di Cangrande.
La lunga sosta pisana, che vede Dante muoversi tra foce dell’Arno e Lunigiana tra 1312 e 1316, viene sostanzialmente accolta, e con essa i suoi presupposti argomentativi: da un lato l’ironica menzione nella epistola ai Cardinali italiani («maggio-luglio 1314») del vescovo di Luni «Gherardino Malaspina di Filattiera» (ma è Gherardino degli Obizzi da Lucca), di nomina contrastata (1312), che «poco si giustificherebbe se (…) il poeta non fosse stato in contatto ravvicinato con la vicenda»; dall’altro l’accoglimento, non nel contenuto ma «nell’informazione» che veicolerebbe, di una enigmatica epistola in copia unica di mano del Boccaccio, nella quale un tal monaco Ilaro farebbe transitare Dante per il monastero del Corvo, sopra la foce della Magra, alla fine del 1314. Sono porzioni rilevanti della biografia dantesca sulle quali la discussione andrà forse ulteriormente approfondita.
È biografia che si raccomanda, quella di Giorgio Inglese: per il continuo sforzo di accompagnare il lettore, anche non esperto, attraverso una selva di questioni letterario-filologiche spesso difficili da districare (qui poteva giovare un indice dei nomi); per la sobrietà esibita nel non volere risolvere a ogni costo i nodi che paiono irrisolvibili; per l’aggiornamento delle fonti e la prospettiva moderatamente positivista. Piace anche l’onesta ritrattazione di alcune ipotesi formulate dall’autore in passato (il primo approdo veronese collocato nel 1304 sotto Alboino della Scala) e rivelatesi poi improduttive: invito da accogliere per impostare una discussione scientifica franca ma serena.