Con questo volumetto di Odi oraziane (pp. 104, euro 12,00) Adelphi intende avviare (cito dal risvolto di copertina) «la pubblicazione dei classici tradotti da Guido Ceronetti: Catullo, Marziale e Giovenale». L’Orazio di Ceronetti, come il suo Giovenale (o come il suo Qohélet) è rimasto a sedimentare dagli anni delle letture giovanili. Come egli precisa nelle due prefazioni al testo (c’è anche quella all’Orazio interruptus, il progetto di un’antologia oraziana del 1982), Ceronetti ha seguito un suo personale itinerario, in mezzo a quel che succedeva nella Res publica litterarum (con gli studi nelle cittadelle accademiche, le traduzioni di Pavese, Mandruzzato, Ramous, Canali, Carena…). La scelta che egli propone in questa antologia (28 Odi, tradotte in versi) è dettata dalla sua idea della ‘sapienza’ oraziana, precipitato di un’esperienza di vita che, nel bruciare, è divenuta pietra dura, non fuoco spento e cenere fredda. Questo Orazio adamantino e ascetico rispecchia un’idea peculiare della ‘classicità’ di Orazio. La selezione operata sembra in effetti ‘iperclassica’, ma in realtà riduce sensibilmente lo spettro dei temi e delle risorse espressive. Ne emerge una concentrazione quasi ossessiva su un determinato nucleo di motivi: il simposio, naturalmente, le stagioni che vanno e vengono, le divinità del canto e delle forze naturali, la precarietà dell’esistere che si svuota di ogni senso del trascendente, del passato e del domani, per riempirsi di significato in ogni singolo attimo strappato alle Chere, e riempire di sé i rapporti d’amicizia e persino d’amore. La presenza della ribollente contemporaneità politica si riduce a carmi notissimi come I 37 (Nunc est bibendum); i temi metapoetici sfumano, così come il rapporto con Mecenate (assente è perfino I 1, Maecenas atavis). Ceronetti chiede di essere giudicato per la coerenza con cui crea un’immagine dichiaratamente parziale del poeta: il testo latino (secondo l’edizione Villeneuve) viene stampato non a fronte, bensì in fondo al volume, non pietra di paragone dello sforzo del traduttore, bensì quasi testimonianza ultima, ricordo estenuato del punto di partenza di un viaggio intellettuale.

Ho espresso in passato perplessità sul Catullo ceronettiano (Einaudi 1969) non in omaggio ad un astratto principio di ‘fedeltà’ al testo antico, bensì in totale disaccordo sull’idea che era alla base di quella traduzione (che fu allora un salutare sasso nello stagno del conformismo; oggi, però, andrà detto quanto fosse perfino ingiusta quell’immagine di un Catullo ‘baudelairiano’, assimilato alla canaille élégiaque). Come allora con Catullo, ma forte di una idea (ancorché problematica) meno fuorviante dei significati letterari del testo-fonte, Ceronetti spesso ricrea ex novo, anche per Orazio, i valori ritmici, sintattici, l’artificiosità dell’ordo verborum, l’organizzazione strofica dell’originale (con il caratteristico uso parco della punteggiatura, che lascia ‘aperta’ la strofa creata dal traduttore), ma il fortiniano gioco di ‘dare e avere’ mostra maggiore coerenza linguistica e forza espressiva. Senza inseguire mimeticamente e inutilmente il testo-fonte, si cerca di additarne aspetti fondamentali. Analizziamo i risultati di questo lavorio.

La traduzione di IV 7 (Diffugere nives) diventa una parabola sulla vita come luce che nutre e pietrifica. Si veda all’inizio, vv. 7-8, la resa di almum … diem («il fertile giorno», nella meno caratterizzata traduzione di Mandruzzato): «il tempo e l’ora che la materna / luce va divorando, dissuadono / dallo sperarci immortali, Torquato»; il carme si chiude invece sul bagliore crudele e offuscante del giudice infernale, «quando abbia scritto su di te, morto, / la sentenza Minosse, accecatrice» (splendida … arbitria è «luminosa sentenza» per Mandruzzato). Sui temi della giovinezza e della vita che fugge la ricerca di un nuovo potere evocativo (più teso e ‘drammatico’) nelle callide immagini e iuncturae del testo oraziano è continua fino all’épuisement (si veda ad es. anche la traduzione di II 11, 6-8); mentre alla pietas dell’ego oraziano verso gli dèi tutelari del suo precario angulus fa da contraltare, nel traduttore, una sensibilità verso le giovani vittime sacrificali dei riti privati, cui pure era promesso un futuro di semplici lascivie animali: l’immagine del maialino che «spruzza» di sangue l’ara si accampa ‘abusiva’ (rispetto al testo-fonte) alla fine di III 22 per riflesso di quella del capretto di III 13, che si preparava agli amori e che invece «colorirà» di rosso la fonte di Bandusia (nell’antologia di Ceronetti i due carmi sono uno accanto all’altro).

Già, la fonte di Bandusia: perché poi «fontanella» in Ceronetti (chi è di Roma, confesso, pensa subito al ‘nasone’)? Poco più avanti, che senso ha la «stagionaccia canicolare» rispetto alla flagrantis atrox hora Caniculae di Orazio? Il gusto per l’escursione nei registri linguistici (o per certe ‘attualizzazioni’) non abbandona Ceronetti, benché vada subito aggiunto che la tendenza è qui mantenuta entro confini ben più modesti e accettabili. Quel che egli cerca è soprattutto la densità espressiva, la traduzione che si fa anche esegesi, interpretazione (fatalmente ‘parziale’) in un lampo, un aggettivo o un giro di frase: in alcuni casi, però, di fronte a un testo così difficile, si paga anche la scelta estrema di eliminare le note esplicative, il che rende certe soluzioni di difficile comprensione (se non fuorvianti: si veda, ad es., la traduzione di I 33, 15-16). C’è almeno un caso in cui Ceronetti ha forse deciso di non avvalersi degli esiti della più recente ricerca filologica, né se ne intendono i motivi (una inattesa volontà di pronunciare ‘sottovoce’ il brano più celebre delle Odi?). Nell’ode I 11, la cruciale espressione carpe diem è tradotta «godi oggi la luce» (dies è luce, ancora). Alfonso Traina ha chiarito il senso del verbo carpere, che qui significa ‘strappar via, spiccare’ qualcosa di piccolo da un corpo più grande, o anche, quasi, spiluzzicare, staccare e assaporare un pezzetto di cibo. Nella traduzione di Ceronetti tutto si perde senza ‘risarcimenti’. Il precedente spatio brevi / spem longam reseces diviene «la speranza senza misura / escludila dalla vita, è breve», ove viene smarrita l’immagine violenta del ‘tagliare via’ la speranza (che fa da pendant a carpe), mentre quella «vita breve» si adagia un po’ troppo sui modi più dimessi e convenzionali del Jargon simposiale. Altrove, invece, certe scelte vanno sopra le righe, specie quando si tratta di amore, la più grave minaccia al modus oraziano. In III 7, l’iniziale restituent, ‘ti restituiranno’ (detto dei venti che renderanno ad Asterie il suo Gige, che si trova oltremare) diviene un più confortevole presente «ti riportano», certo più icastico, ma rischioso, perché è più difficile per il buon lettore ‘comune’ decifrare la situazione (Gige non è ancora in viaggio). Alcuni dei momenti più felici sono quelli in cui, con sensibilità, Ceronetti sa sacrificare il suo Orazio, sofferto possessore di una ‘misura’ sapienziale, all’idea prepotente di un eros semprepresente (avvicinandolo così all’adorato Kavafis): Cloe alla fine di III 26, quando Orazio celebra il suo addio alle armi di Venere, fa ancora con lui «la difficile»; mentre, alla fine di IV 1, i versi in cui l’ego vaneggia in sogno dietro al fantasma dell’amato Ligurino costituiscono uno dei vertici dell’arte di Orazio e del traduttore Ceronetti.

Avere la curiosità di leggere Ceronetti significa armarsi per resistere, spesso, ad un irritante linguaggio da iniziati, al sussiego e alla sufficienza verso gli strumenti dell’analisi storica (e non affrontiamo neppure la discussione, come pure si dovrebbe, su certe posizioni culturali e ideologiche). Tali caratteristiche non sono assenti neppure in quest’ultima fatica, ancorché risultino molto attenuate. Questo Orazio asceta della mediocritas è uno pseudoclassico, frutto di illusionismo classicheggiante: ma val la pena di ascoltare ancora la voce del suo mistico interprete, di riflettere sulle tante soluzioni di traduzione, di apprezzare una lingua che, pur non sempre sul registro più acconcio, riesce spesso ad essere viva e «capace di raggiungere le anime», come dice il traduttore e siamo ben disposti a concedergli.