Schermaglie e ripicche, dispetti e disappunti, agguati e ritorsioni. Ad assistere al turbinio di emendamenti, sub-emendamenti, ordini del giorno, decreti aggiuntivi che si affollano intorno alla legge di stabilità, sembrerebbe di trovarsi di fronte a una di quelle fiere battaglie politiche che rimbalzano da una camera all’altra per determinare un esito migliore o peggiore, o di compromesso, o purchessia, dei destini nazionali.
In realtà, quel ch’è in gioco in quest’ultimo, frenetico scorcio che condurrà al voto di fiducia è soltanto una lieve manfrina tra tocchi e ritocchi. Che certo potrebbero rincrudire, anche con ferocia, il carico antipopolare disposto da Letta e Saccomanni: come si sa, al peggio non c’è mai fine. Ma in sostanza la discussione parlamentare non sposterà minimamente il senso di marcia sempre più angusto e arcigno della politica economica italiana, vincolata dalla bonifica di un debito impossibile da risanare.
Si continua a guidare il paese lungo questo infelice transito sull’orlo dell’abisso, tra intese larghe o semi-larghe. E in parlamento ci si agita (e ci si anima) intorno a questa o l’altra spigolatura: con un fervore che certo appare dal tutto ridondante e fatuo. Accapigliandosi sull’aliquota infinitesimale o sugli incentivi microscopici, sui centimetri quadrati in concessione o sui metri cubi in alienazione.
Come quelle cavie che si ritrovano costrette a convivere nelle gabbie e che dunque a un certo punto cominciano a graffiarsi e mordersi perché senza sbocchi né speranze. Di cacciabombardieri e sommergibili, di grandi opere e alta velocità, di svendite e privatizzazioni non si discute: sono indiscutibili. Restano tagli sociali (e civili), economie collassate, lavoro massacrato, povertà materiale e immateriale. Declino inarrestabile.
I cupi effetti di questa pressione economica sono ormai evidenti, palpabili, mordaci. Attraversano le nostre quotidianità. Ci rendono insicuri, ci spaventano.
Le città appaiono sempre più precarie e tristi, desolati e inermi i territori. Se ne stanno accorgendo anche i sindaci: impossibilitati a corrispondere a una domanda che s’estende e si moltiplica, e per di più sanzionati da normative che riducono ulteriormente il proprio raggio d’azione.
Non a caso, le scaramucce emendatarie vanno a scaricarsi sulle finanze comunali: privatizzare le aziende municipali, vendere il patrimonio pubblico, reintrodurre l’imposta immobiliare, incrementare la tassazione locale, aumentare il costo dei servizi, incentivare perfino il gioco d’azzardo.
Questo sadico balletto sull’economia locale si depositerà, in un modo o nell’altro. Forse quest’anno si eviterà il peggio, ma in ogni caso queste scellerate politiche deprivanti andranno avanti, passo dopo passo, emendamento dopo emendamento.
Per fermarle ci sarebbe bisogno di uno scatto di disobbedienza: rifiutarsi di accogliere quanto disposto in qualche zelante commissione parlamentare o in qualche decreto ministeriale, e procedere in autonomia decidendo liberamente sulle proprie città, sui propri territori. Stabilire insieme ai cittadini e alle cittadine cosa serve alla città . Quali servizi, quale assistenza, quali iniziative per incrementare l’economia e il lavoro, quali attività culturali, quali interventi di manutenzione e riqualificazione.
Ma c’è qualche sindaco disposto a spezzare le catene del patto di stabilità e liberarsi dalle complicità politiche con governi, maggioranze e banche centrali? Forse sì, qualcuno, comunque pochi. La gran parte preferisce lamentarsi, ogni tanto protestare, per poi di fatto adeguarsi. E continuare a tirare a campare.