L’Italia rimane il Paese che cresce meno tra quelli europei. L’Europa è ammalata, ma l’Italia è ammalata grave. Sarà colpa della classe dirigente, della struttura produttiva, dell’assenza di qualsiasi idea di politica economica, ma anno dopo anno il Paese diventa sempre meno europeo. La Svimez ha recentemente raccontato di un Mezzogiorno depauperizzato e tutti hanno sottolineato la situazione, ma l’Italia da troppi anni è fanalino di coda tra i Paesi europei con una minore crescita cumulata di oltre 9 punti di Pil rispetto alla media europea. Una situazione che dovrebbe mobilitare le migliori intelligenze del Paese, ma molti di questi non sono ascoltati, oppure dipinti come gufi. Rimane la cricca del presidente del consiglio, al netto di alcune e poche persone perbene.

Se andrà bene, nel 2015 la crescita potrebbe raggiungere lo 0,6%, esattamente quanto previsto in aprile dalla Commissione Europea, diversamente da quanto indicato dal governo (0,7%) nel Def (Documento Economia e Finanziaria), mentre le previsioni per il 2016 possiamo lasciarle ai cartomanti data la situazione internazionale. Anche il gigante d’argilla Germania, indipendentemente da quello che pensano i tedeschi di se stessi, non se la passa bene: 0,4% nel secondo trimestre. Un valore al di sotto delle previsioni. L’aspetto inedito è la motivazione adottata dall’Istat tedesco: pesano la crisi Greca e il rallentamento della Cina. A colpi di politiche d’austerità, l’Europa ha ulteriormente rallentato e nessuno può dormire sonni tranquilli. Tutta l’economia è in sofferenza e non vediamo all’orizzonte nessuna inversione di tendenza.

Servirebbero investimenti pubblici e un sostegno alla domanda interna, ma le politiche adottate non fanno altro che ridurre il potere d’acquisto e i diritti dei lavoratori. Fino a quando la disoccupazione rimane saldamente al di sopra del 12%, immaginare la crescita del Pil è pura fantasia. Quando i consumi si riducono c’è sempre una ragione: incertezza e non lavoro. La pressione fiscale riduce la crescita? Il solito e neoclassico modello che ha condotto l’Europa e l’Italia verso la più lunga e profonda crisi della sua storia. Dietro la mancata crescita ci sono le note e mai risolte questioni di struttura del Paese: l’industria è ferma e bloccata dalla sua specializzazione produttiva; l’edilizia che non riesce a trovare una nuova dimensione; servizi altalenanti, ma come potrebbero crescere se le imprese chiedono meno servizi?

Renzi sostiene che questa Italia ha voglia di futuro, non della palude degli ultimi anni. Forse ha ragione, ma la stessa Italia chiede un progetto credibile e non facili battute sulle tasse da ridurre. Una politica molto reaganiana che funziona solo in tempi di crescita, non certo in tempi di depressione prolungata. Le cose potrebbero anche andare peggio. Speriamo che il tema delle tasse prenda il verso del dettato costituzionale, ma la sensazione è un’altra. Da un lato il governo ha il problema delle così dette clausole di salvaguardia da coprire via spending review – 17 mld nel 2016 e 22 mld nel 2017 -, dall’altra l’idea di ridurre le tasse per valori che sono oggettivamente inarrivabili, salvo interventi draconiani su sanità ed altri istituti a favore dei meno agiati. Gli istituti statistici continuano a fornire più di una informazione per ripensare le politiche adottate, ma la classe dirigente da tempo ha dimenticato cosa significa «classe dirigente». Un problema in più che si aggiunge ai problemi di struttura del paese.