L’avvento di una maggioranza anti-austerità in Grecia pone per la prima volta la possibilità concreta di mettere in pratica vie d’uscita alternative alla crisi. Correttamente Syriza ha posto al centro dell’attenzione il debito sovrano insostenibile e le politiche della Troika fondate su crescenti dosi di liberismo. I problemi vengono ora di fronte alle rigidità dell’Europa nei confronti di chi prova a svincolarsi da tali dogmi. Indubbiamente i greci, oltre alle sacrosante necessità di dire dei no, si trovano obbligati anche a inventarsi delle alternative.

Le difficoltà emergono sia nel caso di una ricontrattazione/diluizione degli accordi precedenti, sia nel caso di una rottura. Rispetto al contesto dato sembra riprendere vigore una prospettiva neo o post, che dir si voglia, keynesiana. In Grecia il ministro delle finanze Yanis Varoufakis ben rappresenta questa opzione e tanti sono anche gli estimatori presenti altrove, tutti con l’intento di fronteggiare contraddizioni comuni. Come per tante altre teorie sono presenti varianti e sfumature, esistono aspetti condivisibili e imprescindibili, dalla critica del regime di austerità al necessario protagonismo della sfera pubblica.

Ma è su un punto essenziale che tale approccio risulta problematico, cioè la concezione della natura del capitalismo finanziario e il conseguente ritorno alla crescita economica. Una questione di ordine strutturale. Dopo il trentennio d’oro del secondo dopoguerra l’economia reale è andata ingolfandosi, le innovazioni tecniche non hanno consentito l’apertura di un nuovo ciclo paragonabile al precedente, investimenti e consumi si sono ridotti. Il rallentamento dei tassi di produttività, tassi che costituiscono l’elemento dinamico del capitalismo, non ha condotto a una riduzione, se non immediata, dei tassi di profitto poiché, come sottolinea l’economista francese Michel Husson, dai primi anni Ottanta si ristabilisce un recupero dei profitti attraverso la riduzione salariale, l’indebitamento delle economie occidentali e le esportazioni nel resto del mondo. Queste sono le carte che il capitalismo post-crisi degli anni Settanta gioca per salvarsi.

La finanziarizzazione non svolge una funzione predatrice, ma diventa funzionale al sovra-indebitamento e facilita i trasferimenti su scala internazionale. La crisi esplosa nel 2008 però rende evidente come i provvedimenti presi negli ultimi trent’anni non abbiano affrancato completamente l’economia dal suo ormai cronico deficit di produttività. I fattori che hanno sostituito tale deficit sono stati messi a dura prova proprio per i loro limiti intrinseci, svelando il carattere profondo dell’attuale crisi. Il ritorno a un’economia ripulita da quella della finanza non è funzionale a una ripresa sana, il ritorno ai fondamenti di un’economia reale rischia di essere non risolutivo, se non di difficile realizzazione. Lasciare inalterati i meccanismi di fondo dell’economia contemporanea, pensando di uscire dalla crisi innestando la possibilità di batter moneta e di aumentare la spesa pubblica, non fa i conti con le difficoltà che vive il sistema attuale. Va aggiunto che un aumento dell’intervento pubblico, se pensato per far ripartire l’economia nel suo insieme, rischia di essere un’arma spuntata, in quanto lo Stato erogatore di spesa potrebbe non godere dei benefici di un effetto moltiplicatore e assistere invece impotente al disperdersi del proprio impegno finanziario nei mille rivoli di un’economia globalizzata.

Tutti problemi giganteschi, ma che non possono essere elusi, a cui vanno opposte soluzioni adeguate non solo per contestualizzare le resistenze in campo, ma per apparire credibili e, soprattutto, efficaci nell’incamminarsi verso un’alternativa.