Croisette ultimo giorno. Aspettando domani la Palma d’oro e gli altri premi che consegnerà la giuria del presidente Vincent Lindon, il festival comincia a svuotarsi, si è chiuso il Marché del film, via gli stand e i moltissimi professionisti del settore che hanno riempito nuovamente questi giorni la cittadina della Costa d’Azzurra con una folla pre-pandemia mentre l’estate anticipata del mese di maggio accoglie i molti turisti, vacanzieri o solo desiderosi di un fine settimana tra spiaggia e tappeti rossi. Che festival è stato questo 75° festeggiato appunto con un ritorno in sala in grande stile – che purtroppo però non corrisponde alla situazione generale dell’esercizio? Un’edizione senza grandi sussulti, almeno nella selezione ufficiale, che si è dispersa nelle griglie astruse di programmazione volute dal suo delegato generale – tra proiezioni segrete per «happy few» e proiezioni «stampa» del giorno dopo – rendendo il lavoro soprattutto dei giornalisti difficoltoso, così come impervio incontrarsi.

IN QUESTO ORIZZONTE è arrivata ieri la meteora folgorante di Albert Serra (La mort de Louis XIV, Liberté) per la prima volta in competizione, con Pacifiction, un film magnifico, che segna un passaggio importante nel cinema del regista catalano toccando una grazia e una intensità di messinscena in cui si moltiplicano visioni e figure della sua poetica. Col sottotitolo «Tourment sur les iles» – di eco conradiano – ha come protagonista l’alto commissario della repubblica nella Polinesia francese, De Roller, un uomo inafferrabile, che sembra muoversi tra calcolo personale e intrighi politici (Benoit Magimel straordinario) – coi quali manovrare a suo favore. Ma contro chi, e a quali scopi?
L’isola è Tahiti, lui indossa sempre un abito chiaro e gli occhiali da sole bluette, non toglie la giacca di lino neppure sulle moto d’acqua nel mezzo del mare sottolineando così il suo essere «straniero», la propria diversità rispetto agli altri pure se è amichevole, e si dichiara legato profondamente a quel luogo. Intorno a lui c’è un universo di avventurieri come il padrone della discoteca (Sergi Lopez) più frequentata dell’isola ove tutto avviene, si chiama del resto Paradis; giovani donne misteriose e seducenti, portoghesi senza memoria, militari francesi con frenesia bellica, una scrittrice tornata a casa (Cecile Guilbert) in crisi di ispirazione, la bellissima hostess trans del resort (Pahoa Mahagafanau) che scivola con grazia quasi soprannaturale, unica verità possibile in quella rarefazione. Ognuno di loro racchiude il segno di una possibile minaccia, di un mondo oscuro, di un frammento della narrazione – e delle molte storie che vi confluiscono – mancante.

DE ROLLER si sente responsabile, ha le maniere un po’ paternaliste dell’istituzione buona, vorrebbe controllare tutto, sapere ogni cosa. Pian piano diviene sempre più allucinato, si lascia trasportare dalle voci che circolano sull’isola e inanellano ciascuna una diversa versione di ciò che avviene ma forse è tutto solo nella sua testa, una fantasmagoria riflesso di quel paesaggio notturno che percorre senza comprenderne fino in fondo i segni. Enigmatico come il sorriso della sua collaboratrice, e quel sussurrare delicato delle persone del luogo. Cosa agita De Roller dunque? Per primo la convinzione che presto ci saranno dei nuovi test nucleari sulle isole – dopo quelli del 1995 – cosa che inquieta gli abitanti del luogo, specie i movimenti indipendentisti che vogliono organizzare delle grandi proteste e che potrebbero essere pagati dalla Cina o dalla Russia per destabilizzare il paese. E poi quelle figure che appaiono all’improvviso, un americano silenzioso e emaciato, e persino un sommergibile che si nasconde lì intorno su cui la sera salgono le ragazze tornando all’alba coi segni di abusi e di violenze. E che sta progettando l’ammiraglio sempre in divisa, che confessa al giovane marinaretto di prendere la droga in una delle notti nel Paradis?

SERRA ha detto di essersi ispirato alle storie raccontate da Tarita Teriipaia, la moglie di Marlon Brando: cosa ci suggerisce allora il titolo, Pacifiction? Il paradiso di De Roller ha i colori dei quadri di Gauguin e la «finzione» di un’«innocenza» perduta nei rituali recitati per i turisti, un sincretismo di cartoline delle danze locali e dei tramonti che si fondono con le insegne al neon rosa pallido. E su questo bordo di «verosimiglianze» si muove il regista per costruire la sua rappresentazione che è del mondo e di ciò che lo immagina, un po’ come accadeva nel bosco trasognato del precedente Liberté. È attraverso il suo protagonista che Serra ci mostra questo Pacifico altrove letterario di fascinazione e di avventure dove il tempo cola ipnotico, si avvita, traccia cartografie che dicono di un’impotenza e forse di una realtà. Un thriller-politico, il flusso degli esotismi, noi spettatori rimaniamo sempre nella sua testa, il suo sguardo crea le suggestioni a cui assistiamo dandogli un diverso significato. Lì, in questa paranoia crescente, e sontuosamente barocca, si palesa la contemporaneità, l’aggressione di un postcoloniale che afferma in modo sottile il suo controllo e cerca di mantenere le antiche geografie nell’autofinzione gentile di sé. La stessa che contiene i segni di una dinamica mai finita, che stride con quegli universi e con le loro rivendicazioni: un corpo a corpo intorno al potere – che al protagonista nella sua progressiva esaltazione sfugge, mentre «la politica è solo una discoteca». Questo affresco imponente Serra lo rende materia di un’immagine la cui bellezza non è mai accessoria, che si fa macchina cinematografica sensuale e desiderante, capace di muoversi in profondità senza rinunciare alla propria sorpresa.