La bellezza della semplicità. Scegliere un passo base, studiarlo, svilupparlo in miriadi di variazioni, lasciare che trasporti in un flusso di energia ininterrotta la linea del moto nello spazio, corpi in bianco che attraversano la scena in dinamiche slanciate, partite chissà da dove, fuori dalle quinte, per proseguire verso l’infinito. Rotazioni delle braccia, mezzi giri, giri completi, salti, linee diritte che poi diventano diagonali, intrecci, corse e camminate parallele e frontali; danzatori in carne ed ossa e danzatori virtuali, proiettati in trasparenza sulla scena.

È l’incanto che si rinnova in Dance, capolavoro di Lucinda Childs su musica di Philip Glass con film di Sol Lewitt, elegante e ipnotica danzatrice e coreografa americana che dai favolosi anni Settanta è tra le protagoniste di un movimento nelle arti performative in cui la ricerca è l’anima del creare. Maestra del minimalismo, Childs ha inaugurato a Venezia la prima Biennale Danza diretta da Marie Chouinard, ritirando il Leone d’Oro alla carriera.

Rivisto oggi Dance è un incredibile viaggio nel tempo tra passato e presente. Trascina la danza simultanea, ma non sincrona, tra i danzatori originali ripresi nel film di Lewitt e i danzatori in scena: ci riporta alle necessità di quegli anni Settanta e del postmodern, secondo le quali danzare a partire da una camminata variata all’infinito era una dichiarazione politica. Childs: «Quando si semplificano le cose in uno spazio specifico, ci sono molte soluzioni sperimentabili. Io e Sol Lewitt ne provavamo moltissime. La coreografia è imprevedibile. Ascoltavo la musica di Philip Glass, così intuitiva, non per illustrarla o ignorarla, ma per trovare una relazione.

A volte quando creo ho l’impressione di saltare da una scogliera». Passione da ricercatrice, di cui immagine manifesto è l’intrecciarsi visivo in Dance tra la figura della stessa Childs in proiezione nel film e il solo della danzatrice di oggi, simile eppure diversa nel passaggio della trasmissione da corpo in corpo, da mente in mente, che non è mai copia, ma riscrittura.

E sono ancora la ricerca e non la copia, la concentrazione e la messa a fuoco di un tema che si fa pratica i nodi portanti del lavoro di un altro artista a cui la Biennale di quest’anno ha dedicato una monografia: Alessandro Sciarroni. Un background nelle arti performative, nelle arti visive e nel teatro, Sciarroni, classe 1976, è a giusto avviso considerato un nome da seguire. Ha portato a Venezia tre suoi lavori, fedeli a una scelta di fondo: l’esplorazione di un principio senza distrazioni d’effetto. Un affondo in una materia che di primo acchito può sembrare facile e invece rivela uno scavo di prospettiva.

Chroma, in prima italiana alle Tese dopo il debutto a Parigi, porta a compimento il progetto dedicato al turning, l’azione del girare che è cambiamento e evoluzione, esplorata con gruppi vari (come il Balletto dell’Opera di Lione), ora materia di un solo con lo stesso coreografo. Una ricerca che con un’azione singola ripetuta per 45 minuti, comunica la relazione tra il sé e lo spazio del quale siamo parte.

Secondo titolo in scena Aurora, del 2015, accompagnato dalla proiezione dello stupendo film omonimo di Cosimo Terlizzi che ci porta dentro la creazione di un lavoro sulla percezione attraverso il Goalball, sport paraolimpico per non vedenti e ipovedenti. Un game giocato da sei atleti di fronte al pubblico, dove si fa goal o lo si subisce attraverso le reazioni dell’udito al rumore della palla che rimbalza… Uno spettacolo che sollecita con potenza una riflessione sul rapporto con gli altri.

Chiusura con Folk-s, con la compagnia di Sciarroni, una pratica di resistenza a partire dallo Schuhplatter, ballo tipico bavarese e tirolese. Ed è un pezzo che ci riporta alla bellezza della semplicità nelle infinite variazioni dall’assunto di base. Una fedeltà alla ricerca per cui ci piace accostare l’artista contemporaneo Sciarroni alla sperimentatrice Childs anni Settanta: «la danza – ha detto Childs a Venezia – è la forma d’arte più fragile, ne parliamo spesso a New York. Ma i giovani coreografi non si fermano davanti a nulla. Ed è bellissimo essere parte di questa comunità». Chiusura Biennale stasera con Robyn Orlin e Mathilde Monnier.