Il day after il voto sul jobs act che ha fatto emergere i 33 volti della ’sinistra non allineata’ del Pd, da distinguere dalla sinistra riformista ex bersaniana in avvicinamento al segretario e da quella renzista dei giovani turchi già da mesi solidamente in maggioranza, il Pd è uno spettacolo pirotecnico di esplosioni variopinte. Ormai è chiaro che dei 33 «del dissenso metodologico» (copyright Matteo Orfini, la frase finisce così: «perché nel merito non mi pare che fra Fassina, Boccia e Bindi ci siano grandi punti di contatto») solo Civati mette in conto un abbandono del partito. Ma senza fretta perché a sua volta è alle prese con il non facile aggancio di una sinistra-sinistra non tutta in linea con la sua idea di «rifondazione del centrosinistra».

Altro elemento ormai lampante è che le tre sinistre, tre semplificando molto, dovranno convivere fra loro a lungo, oltreché fare i conti con un segretario che se ne infischia del dissenso interno: «Mi preoccupano i precari. Se qualcuno non rispetta gli accordi è un problema suo», ha spiegato ieri al Tg1.
Così i forzati della coabitazione accendono singolar tenzoni. Ci sono litigi nuovi di zecca come lo scontro fra Rosy Bindi e Debora Serracchiani. L’una sul Corriere della sera invoca un Pd che torni «a essere il partito dell’Ulivo». L’altra replica: «L’esperienza dell’Ulivo è nata 20 anni fa, sicuramente un’esperienza vincente, ma ora non risponde più alle domande del paese». Chiosa non elegante dell renzianissimo Marcucci: «Ascoltando a Radio radicale l’intervista di Bindi, per un attimo ho pensato ad interferenza con Rai Storia».

Poi ci sono vecchie ruggini che affiorano finalmente alla luce del sole, come quella fra Gianni Cuperlo e Matteo Orfini. Si consuma su facebook, il social che consente riflessioni ponderose, libero dalla tirannia dei 140 caratteri di twitter. I due dirigenti hanno una lunga storia di comunanza non sempre cordiale. Compagni di mozione al congresso in cui Cuperlo era candidato, dopo la sconfitta il giovane turco ha subito traghettato la sua area in zona Renzi. E alla fine ha sostituito l’ex leader alla presidenza del Pd. Cuperlo ieri gli ha indirizzato una dolente lettera aperta dove si dichiarava «impressionato dal tono e dal merito» di una sua definizione a proposito dei dissidenti: «Primedonne vittime di protagonismo a fini di posizionamento interno». Risposta di Orfini: «Se tutti ci comportassimo come avete fatto voi, questo partito diventerebbe uno spazio politico, e non un soggetto politico (per citare Bersani). E non durerebbe a lungo».

La fibrillazione interna è destinata a crescere. Oggi pomeriggio alla camera il Pd ha convocato la riunione dei deputati sulla legge di stabilità, sulla quale i dissidenti conducono un serrato lavorìo emendativo. Già si annuncia il voto di fiducia. Ma il renziano Roberto Giachetti attacca: «Vorrei capire che senso ha tornare a riunire il gruppo e votare se poi queste decisioni non sono vincolanti ed ognuno senza colpo ferire fa come vuole. Dichiaro pubblicamente che voterò a favore della legge di stabilità ed evito di partecipare a quello che qualcuno ha voluto trasformare in un inutile teatrino».

Intanto ieri il senato ha respinto le dimissioni di Walter Tocci, rassegnate dopo un sofferto sì proprio al jobs act. In aula Tocci ha ribadito tutto il suo dissenso sulla legge delega, rincarando la dose con la preoccupazione per la trasformazione del parlamento in un «apparato di consenso, peraltro mal tollerato, di una burocrazia dominante», ha concluso citando Max Weber. In settimana il jobs act arriverà in aula per il sì definivo. Già annunciato il no di Corradino Mineo.

I dissensi si incrociano, destinati a sfociare in una zuffa da saloon alla direzione di lunedì dove il pasticcio jobs act si combinerà all’analisi del voto sulle regionali. Sulle quali gli ex bersaniani, stavolta di nuovo uniti, accusano il segretario di sottovalutare l’astensionismo. Dalla parte opposta Orfini ragiona così: «Spero che Renzi non minimizzi, ma del resto è assurda la linea di chi non ha capito che in Emilia il sistema dei corpi intermedi, partito cooperative confindustria università, sta andando in esaurimento. E gli esclusi che non vanno a votare sono proprio i figli di questo sistema». Quanto ai dissidenti, nessun provvedimento disciplinare, ma «quelli che non hanno votato il jobs act non possono pensare che la cosa finisca con una pacca sulla spalla».