C’era una volta un re. E una regina. Nel loro castello però non arrivava la principessina, quella a cui le favole spesso riservano un destino crudele e che alla fine viene sempre salvata dal cavaliere azzurro bello e senza paura … Per avere un figlio la Regina (Salma Hayek) e il Re (John C.Reilly) sono disposti a tutto ma un desiderio così violento li avverte un diabolico Calibano (Franco Pistoni) potrebbe avere conseguenze terribili.

C’è poi una principessa (Bebe Cave) che sogna il grande amore, e il matrimonio con l’abito più bello fantasticando sulle avventure di Lancillotto. Il padre re (Toby Jones) è troppo preso da una pulce per preoccuparsi di lei, e a causa di questa insana attrazione la ragazza conoscerà un tragico destino.
Ci sono due sorelle anziane che tingono stoffe, una di loro ha la voce di fanciulla, e il re (Vincent Cassel) se ne invaghisce un’alba dopo i suoi festini lui che è divorato dalle ragazze in fiore. La donna si nega e accende ancora di più il suo desiderio ma quando scoprirà, dopo una notte di sesso, che è una vecchia la farà gettare disgustato dalla finestra.

Lo Cunto de li Cunti scritto da Giambattista Basile nel Seicento (in napoletano) raccoglie cinquanta fiabe, le più antiche d’Europa, fonte di ispirazione per Grimm e Andersen, e di queste Matteo Garrone ne ha scelte tre, La vecchia scorticata, La pulce e La cerva fatata che scivolano l’una dentro l’altra, come vuole la narrazione orale nel suo nuovo film, Il racconto dei racconti, Tale of Tales, in concorso al prossimo Festival di Cannes, e in sala il 14 maggio. Una fiaba paurosa come sono tutte le fiabe, e come con accenti diversi tutti i suoi «fiabeschi» film visto che è il sentimento umano nel profondo di pulsioni archetipe e immutabili, paure e desideri, fragilità e violenze che il regista esplora, qui spogliato dalla temporalità e dalla contigenza, immerso nel paesaggio del Mito. In cui si mescolano horror e fantasy, che della fiaba sono le declinazioni intime, la bellezza potente di una pittura preraffaellita, eccentrica intuizione della metamorfosi barocca (ovidiana) che attraversa l’universo delle storie: umani e «mostri» si scambiano le fattezze, pulci giganti e cuori di drago danno forma a egoismi e indifferenza, piaceri proibiti e riti di passaggio, sussulti di follia e romanzi crudeli di formazione.

Lui, Garrone, si muove tra le sue visioni come un acrobata sul filo teso alla perfezione, saldo, senza cedimenti, col respiro potente e sensuale delle sue immagini.
Siamo fuori del tempo, in castelli stagliati contro un cielo blu che possono essere oggi o un passato remoto, geometrici labirinti di un sentimento che ripete sé stesso all’infinito nei nostri incubi e nelle nostre ossessioni. Intorno boschi pànici dove strane creature, divinità ma non dei si divertono a ingarbugliare il corso delle cose, e a stuzzicare gli umani nelle debolezze.

Garrone «degenera» i generi, spiazza lo sguardo e il cuore conducendoci lentamente nell’Edipo della nostra umanità. La sua «traduzione» del Racconto dei racconti – nella sceneggiatura scritta insieme a Massimo Gaudioso, Edoardo Albinati, Ugo Chiti – è una favola sul potere dell’immaginario che produce regole, gender, modelli, desideri, e che solo dal «di dentro» può essere spiazzato, reinventato con una ribellione del corpo e dell’anima. L’esaltazione fanatica della bellezza giovane e perfetta, perché solo questo vale, non una semplice voce, non una storia ma essere come lo sguardo del Re desidera dopo avere provato a ingannarlo. Lui che in fondo è già vecchio e come certi sovrani dei nostri giorni si circonda di ragazze e orge. Ma quale beffa è il tempo che nessuna magia può fermare, quello biologico almeno, eppure per essere giovani le due sorelle sono disposte a sacrificare anche chi amano, a incollarsi il corpo (prototipo della chirurgia plastica), a farsi scarnificare.

Ed è un romanzo di formazione, quella necessità violenta di uccidere i genitori, seppure in modo inconsapevole (inconscio), la madre che sovrasta e considera un pezzo di sé il figlio principe albino e che al tempo stesso è pronta a farsi uccidere per lui. Si può essere liberi in altro modo?
Ma soprattutto Il racconto dei racconti – dedicato a Nico (Garrone) papà del regista, coltissimo critico e uomo di teatro, e a Marco (Onorato) il suo padre cinematografico – è un film commuovente sul femminile che questo Potere dell’uomo e della tradizione (e dell’inconscio) cercano di conformare ai propri voleri, specchio di un desiderio, ciò che le donne devono essere, vergine, sposa, giovane e bella, madre fino alla follia e alla morte, figlia devota pronta a sacrificarsi per il protocollo del regno, il volere di un padre il cui sguardo è più attratto da un insetto. Sono le donne in diverse età, forse persino una donna sola, le protagoniste di queste storie e del film, i personaggi su cui si concentra il regista, le sole che possono destabilizzare lo sguardo e gli immaginari producendo mutazioni imprevedibili.

Il limite è sempre lo scontro con quel potere (sguardo), quando sottrarsi e come ribaltarlo. A uccidere l’orco non arriva nessun principe azzurro, l’orco si uccide da sola sia esso un padre orrendo nella sua indifferenza, che stupra il sentimento, o un uomo violento che la giovane principessa, novella Salomè dopo essersi ribellata al suo destino potrà essere regale.

Non c’è a ben vedere tanta distanza tra questo film ed altri di Garrone, penso a L’imbalsamatore, Gomorra o il precedente Reality. Anche lì nonostante la «cronaca»e i riferimenti alla realtà la macchina da presa del regista spostava il suo punto di vista addentrandosi nell’immaginario, nella rappresentazione di sé conforme ai «modelli» – i ragazzini scorsesiani di Gomorra – nelle proiezioni su qualcuno o su qualcosa di un desiderio originario e collettivo, fosse pure rinchiudersi nella Casa del Grande Fratello.

Cià che cambia è la forza delle sue immagini, a ogni film sempre più sorprendenti, talento di un regista unico in Italia a avventurarsi in un terreno aperto e così sontuoso. E non è questione di effetti speciali ma di dosaggi tra emozionalità e luce (a cui il geniale Peter Suschitzky trova perfetta corrispondenza), ritmo (il montaggio di Marco Spoletini), piacere discreto di un festo d’amore. Con «trucchi» quasi artigianali (e ovviamente raffinatissimi), omaggio al cinema di Bava, dice Garrone, ma anche a quello dei baracconi e dei circhi, alle fantasie lunari di Mèliés coi suoi draghi e i suoi viaggiatori spaziali.

Il Racconto dei racconti è un film magnifico, un’esperienza dei sensi dentro a quel cinema «grande» senza la retorica pretenziosa di dichiararsi tale, con la bellezza pura di una sfida.