14 dicembre, in una zona a Sud Est di Delhi che solo i residenti conoscono, più che altro mussulmani. Subito fuori dalla stazione Kalindi Kunj, accanto all’arteria a sei corsie solitamente trafficatissima, arrivano alcune donne, saranno una decina. Ciascuna ha un cartello in mano, e una candela accesa.

Si siedono. E rimarranno sedute tutta la notte, anche dopo aver esaurito le candele, per denunciare la brutalità che solo pochi giorni prima (11 dicembre) ha soppresso nel sangue la protesta all’interno dell’Università Jamia Millia: missione punitiva contro gli studenti in sit-in per la vituperata Legge di Cittadinanza, entrata in vigore proprio in quei giorni.

Per tutte le notti e i giorni successivi, altre donne e uomini e figli, e amici dei figli, e tanti altri tra la gente comune, si aggregheranno al sit-in, che in pochi giorni si allunga per quasi un km lungo quell’arteria ormai impraticabile, traffico dirottato. E nel giro di poche settimane ecco arrivare i designer, gli street artist, i musicisti, i rappers, i poeti, i VIP del cinema, calamitati dalla forza di quel movimento che a volte supera le 100.000 presenze. Il sit-in più lungo e partecipato dell’India post coloniale.

La storia di questa straordinaria protesta solo (ma non solo) di donne, che infagottate nei loro scialli hanno continuato a sfidare uno degli inverni più rigidi che si ricordino, è purtroppo già Storia (Wikipedia per chi fosse interessato). Perché lo stesso giorno, in cui il Governo Modi ha imposto il total lockdown contro il Coronavirus, anche il sit-in di Shaheen Bagh ha dovuto arrendersi. Per la verità già da qualche giorno si era prudentemente ridotto a un manipolo di donne, sedute a distanza, circondate dall’eloquente marea di ciabattine, scialli, effetti personali lasciati dalle compagne. E in vista dell’emergenza sanitaria, la formidabile macchina di solidarietà che spontaneamente era fiorita intorno al movimento, sarebbe stata prontissima a cooperare. Per esempio quella domenica, il 22 marzo in cui Modi aveva lanciato il Janata Curfew, il «coprifuoco del popolo» dall’alba al tramonto, anche Shaheen Bagh aveva detto: Tutti a Casa. Ma il giorno dopo ecco l’ordinanza che imponeva il Tutti a Casa a partire dal 24 marzo.

E il 24 marzo, a prelevare di peso le pochissime presenti, sono arrivate le Forze dell’Ordine insieme alle ruspe: nel giro di poche ore quella che ormai era diventata un vibrante, coloratissimo, multiforme contenitore di ogni genere di espressione all’insegna della resistenza, è stato raso al suolo. E quello che potete vedere in queste foto (pochissime, per motivi di spazio) riesce solo a suggerire l’incredibile fioritura che è stata Shaheen Bagh. Proviamo a visualizzarla in rapida carrellata: grande poster con volto di donna avvolta nel suo hijab e al posto della bocca parole che dicono «Parla, le tue labbra sono libere!» (opera di una certa Tanzeela, ispirata dall’attivista-poeta pakistano Faiz Ahmad Faiz); stesso poeta anche per i messaggi sulle centinaia di barchette sparse a terra in forma di enorme cuore, accanto al carro armato di cartone con su scritto «Non siamo fior di loto, bensì mazzi di fiori» (in polemica contro il simbolo del BJP al governo); enorme silhouette dell’India realizzata con ferraglie raccolte in loco da Rakesh Kumar; riproduzione della centralissima India Gate, tradizionale teatro di protesta, per dire che la protesta sta di casa solo a Shaheen Bagh, che infatti si replica anche a Mumbai, Kolkata, Bengaluro, Gaya…

E poi la Biblioteca, per studenti di ogni età. E un’intera fiancata di strada tappezzata con le foto degli scontri di cui Delhi è stata teatro durante i 101 giorni che hanno totalizzato la straordinaria vita di Shaheen Bagh. Tutto raso al suolo. Tutto già ripristinato, come se nulla fosse successo. «Rimangono solo le foto, per fortuna tantissime» commenta l’attivista-fotografo Ram Rahman, portavoce del gruppo Sahmat. «Ma appena passa il Covid 19, ristampiamo tutto in formato gigante, o anche minuscolo, a mo’ di sticker, e contagiamo tutta Delhi del Good Virus che è germinato a Shaheen Bagh.»